Nuove soggettività e vite precarie
Si apre oggi a Torino la Conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori organizzata da Rifondazione Comunista/Sinistra Europea. Pubblichiamo il contributo del Forum delle donne.
In queste settimane sono stati resi noti da molti istituti statistici i dati
sull’occupazione che sanciscono inequivocabilmente la grave crisi occupazionale.
_ Ma
non è solo il dato della disoccupazione ad allarmare.
Esso è semplicemente la spia
di una situazione ancora peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo
cognitivo-relazionale, infatti, “l’esercito industriale di riserva” non è più
costituito dalle disoccupate e dai disoccupati ma sempre più dalle precarie e dai precari. E sono proprio i dati sulla precarizzazione che alimentano previsioni
disastrose.
Ciò che stiamo vivendo è un rapido scivolamento verso le fasce più deboli e meno
protette della precarietà. Chi sino a poco tempo fa aveva un contratto stabile di
lavoro, se ha subito un licenziamento, oggi si deve accontentare di un contratto
atipico. Chi si trova nella condizione precaria – la maggioranza delle donne e dei
giovani – oggi vede deteriorarsi ulteriormente la propria condizione di vita, in un
paese come il nostro che soffre di uno stato sociale tra gli ultimi in Europa,
sottofinanziato e inadeguato a rispondere a primari bisogni sociali in particolare
per quanto riguarda l’infanzia, la non autosufficienza, il diritto all’abitare; un
paese pressoché unico in Europa ad essere privo di qualsiasi forma di ammortizzatore
sociale che garantisca continuità di reddito. In ultimo, stanno le/i migranti
soggetti alla repressione quotidiana dei più elementari diritti di esistenza.
Non è
casuale che le risposte dei governi alla crisi siano improntate ad un nuovo
autoritarismo che fa leva sulla paura e l’incertezza, costruendo sistematicamente un
immaginario sociale punitivo volto a legittimare un eterno stato di eccezione come
paradigma di governo.
Dentro un’ulteriore precarizzazione delle vite diventa sempre più evidente la
necessità di comprendere le modificazioni dei paradigmi produttivi, di quel
“divenire donna del lavoro” che suggerisce la natura biopolitica dei rapporti di
lavoro attuali, complessivamente intesi. Il lavoro è cambiato. Il sistema fordista
di produzione era strutturato su una serie di dicotomie: tempi di vita/tempi di
lavoro, lavoro manuale/lavoro cognitivo, dentro/fuori; categorie che oggi sfumano in
un continuum biopolitico in cui è l’intera vita che viene messa a produzione.
_ I
processi produttivi sono sempre più legati a conoscenze, competenze, capacità
relazionali, di comunicazione, che vengono soprattutto acquisite fuori dai tempi di
lavoro, ed è proprio la sfruttamento di queste capacità a rappresentare oggi gli
incrementi di produttività: in termini marxiani siamo di fronte all’estrazione di un
plus valore assoluto e intensivo.
Le soggettività femministe hanno fatto della precarietà esistenziale il perno su cui
attualizzare la questione del lavoro domestico non retribuito delle donne che oggi
diventa il paradigma delle molte forme di lavoro nella contemporaneità, evidenziando
come il quadro di una precarietà generalizzata non faccia che aggravare la
dimensione sessuata e gerarchica dei rapporti sociali di produzione.
_ Ed è così che
il lavoro, più precario, sottopagato e meno qualificato delle donne, non permette
loro di raggiungere l’autonomia economica. La dipendenza economica si aggrava dentro
il precipitare di una crisi strutturale, in cui le donne sono e saranno espulse dal
mondo del lavoro, costrette a permanere dentro strutture tradizionali di dipendenza
come la famiglia, unico ammortizzatore nel quadro di uno stato sociale inadeguato,
perché ancorato al modello fordista, che per giunta è stato fatto progressivamente a
pezzi.
Eppure c’è ancora chi continua a sostenere, attraverso una costante naturalizzazione
del soggetto donna, la legittimità dell’esistente mitigata da strumenti
conciliativi. Si tratta di teorizzazioni che di fatto considerano il lavoro di cura
non retribuito come base per rivendicare un part time conciliativo visto come
un’opportunità che consente alle donne la doppia scelta del lavoro e della
maternità. La stessa impostazione è al centro del ddl presentato dal Partito
Democratico “{Misure per favorire l’occupazione femminile e la condivisione e
conciliazione fra lavoro e cura}” che di fatto scarica la conciliazione fra lavoro
produttivo e lavoro riproduttivo esclusivamente sulle spalle delle donne, omettendo
il ruolo che precarietà e migrazione giocano nel mercato del lavoro contemporaneo.
Le condizioni del lavoro precario precludono la possibilità di organizzare i tempi
personali, di progettazione, le scelte affettive, i tempi dell’autodeterminazione, e
le trasformazioni avvenute palesano l’estendersi a livello globale del conflitto tra
capitale e lavoro che assume forme nuove e molteplici disvelando il violento
avanzare di un conflitto che è tra capitale e vita.
Le donne – native e migranti – sono la punta avanzata di questi processi e crediamo
possano essere anche la punta avanzata delle lotte intorno ai nuovi diritti.
In una crisi – che lungi dall’avere un carattere meramente economico – è crisi di
civiltà in cui molteplici sono le contraddizioni come diversi sono i soggetti del
conflitto, le analisi e le pratiche femministe assumono un ruolo centrale nella
trasformazione dei modi di analizzare la realtà: la soggettività come molteplicità
complessa, incarnata e in divenire, la critica ad un soggetto donna costantemente
naturalizzato, l’esperienza corporeizzata come fondamento di un nuovo materialismo
lontano dalle astrazioni androcentriche perpetrate dal liberalismo ma anche dalla
“tradizione comunista”, le alleanze come strategie radicali di relazione tra le
differenze.
La possibilità di rilanciare pensiero e pratica femminista a partire dalle
trasformazioni avvenute nella vita delle donne, si connette con la possibilità di
costruire percorsi femministi che sappiano rifondare la sinistra a partire dal nodo
dell’autodeterminazione come condizione materiale d’esistenza e libera scelta per
ciò che concerne il proprio corpo, la sessualità, il nascere , il vivere, e il
morire. Per uscire dal capitalismo in crisi dobbiamo porci il problema
dell’efficacia delle lotte nel contesto di una situazione storicamente determinata
dei rapporti di forza e delle forme di dominio, di fronte ad una variazione
antropologica generata dalle trasformazioni del lavoro: l’obiettivo è dunque quello
di scardinare la precarietà non solo come condizione lavorativa ma come condizione
esistenziale, come cifra in grado di esprimere la vita contemporanea.
Accanto alla
campagna referendaria per l’abrogazione delle legge 30, contro il nucleare e la
privatizzazione dell’acqua bene comune e all’impegno che ha visto Rifondazione
presentare proposte di legge regionali sul reddito sociale noi crediamo sia
necessario attivare luoghi incessanti di elaborazione e confronto tra le molteplici
soggettività della trasformazione e del conflitto, luoghi in cui soggetti autonomi
in relazione tra loro possano produrre proposte di azione e modalità di decisione
condivise a partire da pratiche differenti, per pensare e agire la contemporaneità e
costruire un immaginario sociale altro, obiettivo ineludibile in un’epoca di
interessi dominati e codificati dai media come potere globale.
Ed è per questo che, a partire dall’iniziativa di Perugia “Donne sull’orlo della
crisi…che non vogliamo pagare!”, abbiamo sentito la necessità di intraprendere il
primo passo di un percorso volto ad approfondire il confronto attorno a questi temi,
a partire dal complesso e articolato dibattito tra basic income (reddito di
esistenza) e reddito minimo, mettendo in relazione culture e generazioni politiche
diverse, e accanto a giuriste, sindacaliste, dirigenti politiche, soggettività
precarie che con le loro esperienze di vita da anni ormai ci parlano, attraverso lo
strumento dell’inchiesta e dell’autonarrazione, delle loro esistenze precarie
schiacciate in un eterno e affannoso presente, tra bisogni e desideri.
E’ necessario provare ad agire sul terreno vivo di queste esperienze con una
proposta unificante delle lotte, mettendo al centro i desideri, le pretese che
riguardano la vita e non sono dunque comprimibili esclusivamente in una
contrattazione del e per il lavoro, costruendo una nuova idea di messa in comune che
si fonda su un’idea altra di sicurezza intesa come autonomia e libertà di scelta.
Ed è proprio il diritto al reddito garantito, che è al centro dell’agenda politica
dei movimenti e che sta progressivamente permeando vasti settori della società,
culture politiche e sindacali anche molto diverse tra loro, a configurarsi come uno
strumento centrale per pensare un nuovo welfare che tenga conto del fatto che il
paradigma contemporaneo di accumulazione tende sempre più a basarsi sullo
sfruttamento dei beni comuni, che sono i beni primari della terra (acqua, energia),
i beni individuali e collettivi (i saperi, le conoscenze, le capacità relazioni).
L’obiettivo è preservare i beni comuni e distribuire socialmente i guadagni che il
loro sfruttamento comporta nel quadro di una radicale riforma del welfare e del
rilancio della lotta per la giustizia fiscale.
Il reddito universale e incondizionato, collocandosi nel cuore del conflitto tra
capitale e vita, si configura come uno strumento di autodeterminazione attraverso
cui ricomporre ciò che la precarietà ha frantumato, rompere le catene dello
sfruttamento, di nuove e vecchie forme di disciplinamento, per liberare tempi, spazi
e rendere possibili processi di soggettivazione. E’poi evidente come la
privatizzazione dei beni comuni, i tagli alla spesa sociale e la precarizzazione del
lavoro siano, attacchi diretti alla libertà e all’autonomia delle donne, perché è a
loro per prime che si chiede di fare – gratuitamente, invisibilmente – da
ammortizzatrici sociali per servizi di cura interni alla famiglia di cui il welfare
non si fa più carico. Il reddito d’esistenza per le donne diventa quindi un
obiettivo attraverso il quale migliorare le proprie condizioni materiali
sganciandole dal lavoro, vivere una reale “sicurezza”, nell’autonomia delle proprie
scelte, con una effettiva possibilità di autodeterminazione e autonomia dalla
famiglia tradizionale.
Reclamare reddito per tutte e tutti e lavorare nella direzione volta a tradurlo in
uno strumento concretamente praticabile, dunque, non significa arrendersi alla
precarizzazione del lavoro, né ad una visione assistenziale, ma sostenere la
crescita della libera individualità, che non è il risultato ma il presupposto della
trasformazione sociale. La lotta per il diritto al lavoro stabile e per il reddito
non sono in contrapposizione, insieme tali dimensioni possono produrre un circolo
virtuoso determinante per il progetto di ricomposizione delle soggettività del
lavoro vivo contemporaneo che sono molteplici e percepiscono la precarietà con
modalità differenti a seconda del contesto lavorativo e del tipo di prestazione
svolta.
La sinistra ha bisogno di una progettualità coraggiosa, che sia in grado di
distogliere l’attenzione dalle affabulazioni populiste con una grande narrazione
capace di disegnare la prospettiva del domani e di rispondere alle immediate
esigenze del presente. La questione posta dal reddito è allora sia quella del
riconoscimento e della lotta contro l’ estensione e il ricatto dello sfruttamento e
la corsa al ribasso del costo del lavoro, che quella dell’emancipazione del lavoro
dalla sfera della produzione di plusvalore, e della necessità di favorire la
transizione verso un modello non produttivista, fondato sulla preminenza di forme di
cooperazione non mercantili e capaci di liberare l’intelligenza collettiva dalla
logica parassitaria del capitalismo cognitivo, dispiegando un orizzonte di senso
centrato sul diritto di scelta del lavoro e su una definizione qualitativa dei
rapporti sociali, dei rapporti tra società e natura.
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