Dal primo giorno ci sono alcune questioni interessanti da riprendere.
Per esempio l’analisi della indiana Brinda Mehta , che nel suo intervento
mette in connessione la malattia con la politica.Non ci posso credere, ma eccomi qui sulla Pharaon, una tra le più grandi
Nile boat del Cairo; il kitch è assoluto, e talmente eccessivo da diventare
straordinariamente bello.

Ci sono colonne, sfingi, obelischi, e pareti con immancabili antichi egizi
dipinti in colori sgargianti. Assolutamente orribile, eppure magico. Fuori
il Nilo scorre, nella notte illuminata dalle mille luci degli hotel
eccessivi, i grattaceli svettanti e le enormi strutture che pubblicizzano
grandi marche occidentali di abiti e di benzine.
_ Anche nel buio sono
visibili gli effetti dell’inquinamento, che qui si respira giorno e notte,
impastato com’è di sabbia e gas di scarico delle auto, e rende l’aria, le
macchine e le costruzioni di un colore marrone chiaro costante.
_ Anche questa sera Nawaal stupisce e commuove: danza, prima solo con le mani
da seduta al tavolo, poi si alza e balla, con una grazia e un’ironia
strepitose. Chissà come saremo noi a 83 anni, di certo così sembra non ne
facciano più alla fabbrica.

Quasi tutte cantano e ballano, e all’improvviso, da una porta che sembrava
solo un disegno nel muro dell’imbarcazione, esce una bellissima giovane
danzatrice del ventre in un abito rosso; si esibisce per noi, tutte battono
le mani, qualcuna azzarda dei passi con lei sulla pedana, e le tensioni
della giornata si stemperano, finalmente.

Dal primo giorno ci sono alcune questioni interessanti da riprendere.
Per esempio l’analisi della indiana {{Brinda Mehta}} , che nel suo intervento
mette in connessione la malattia con la politica.

Non è una traccia nuova: già {{Susan Sontag}}, in {Malattia come metafora}, aveva
indagato il cancro come la malattia simbolo dell’epoca contemporanea, capace
di descrivere la disumanizzazione crescente nella società capitalistica.
_ Metha parla della ricca e fiorente letteratura del dolore, the scripture of
paine, e delle molte autrici arabe e indiane che hanno usato la loro
personale malattia per rompere il silenzio che spesso si cela su chi è
vittima del cancro o di altri mali che hanno forte connessione con il
disumanizzante stile di vita imposto dalla globalizzazione neoliberista. In
questa miscela tra testimonianza personale e messaggio politico si affaccia
in modo chiaro la connessione tra pensiero femminista e ambientalista.

Ancora dal primo giorno {{Obioma N Nameka}}, accademica africana, suggerisce,
dopo una carrellata sulle diverse anime del femminismo del suo contenente,
una visione da adottare per, come lei dice “stare dentro il cambiamento.
_ Sceglie il camaleonte, perchè quando era piccola uno zio le aveva parlato
delle curiose capacità di questo animale: ha gli occhi che ruotano e possono
contemporaneamente guardare in direzioni opposte, ma soprattutto riesce a
stare nelle situazioni nuove assumendo il colore dell’ambiente,
confondendosi con l’esterno prima di tornare alla dimensione cromatica
precedente.

Obioma sostiene che questa capacità fisica può rappresentare una risorsa
simbolica interessante per il movimento delle donne, non perchè si debba
essere trasformiste e quindi ambigue, ma piuttosto perchè l’abilità di
adattamento costituisce una precondizione per resistere e sostenere il peso
del’incertezza nelle situazioni potenzialmente pericolose. Una proposta
politica di impatto che non tutte trovano calzante, ma suggestiva come ogni
antropomorfizzazione, da Esopo in su nei secoli.

La seconda giornata si apre con l’intervento di {{Johan Galtung}}, uno dei più
noti studiosi delle pratiche e teorie nonviolente. Galtung chiarisce che
quelle che spesso chiamiamo democrazia e pace in realtà descrivono talvolta
semplicemente la fotografia della democrazia parlamentare, il che non
significa automaticamente che una società parlamentare sia pacifica e
democratica.

Laddove il patriarcato è ancora forte e quindi detta le leggi visibili, (e
soprattutto quelle invisibili), la politica e la convivenza non sono
pacifiche è democratiche. Per dirsi davvero pacifiche le società, e quindi
le donne e gli uomini, hanno da percorrere una strada che prevede l’uso e la
pratica dell’empatia, della nonviolenza e della creatività, le tre
precondizioni perchè nel conflitto il processo non si traduca in guerra e
violenza.
_ Galtung si avventura nel controverso territorio della differenza
biologica tra donne e uomini, sostenendo che le donne sono comunque meglio
disposte alla collaborazione e all’empatia. Se gli uomini di fronte al
pericolo attaccano oppure fuggono, le donne più spesso si fermano, e
cercano di affrontare la violenza con il confronto. Galtung chiama questa
attitudine (suppostamente) femminile ‘costruttrice’.

“Siete delle costruttrici, dice Galtung, ed è necessario che questa vostra
capacità di usare il linguaggio e l’empatia al posto della predisposizione
maschile verso le armi, la violenza e l’attacco venga estesa a tutti i
livelli della società”.

Non tutte gradiscono questa analisi, trovando scivoloso (anche perchè già
sperimentato nella sua forte caratteristica di negatività per le donne) il
territorio del biologismo e dell’essenzialismo, e Galtung si riscatta agli
occhi della platea femminista quando afferma che il nostro mondo ha urgente
necessità di educare alla sessualità gli uomini, se ancora si sentono
accumunare la sessualità e il piacere nel tristemente famoso adagio “meglio
comandare che fottere”.
_ La presenza di Galtung, come delle altre femministe accademiche mischiate
con le attiviste grassroute, segna un salto di qualità interessante nella
offerta internazionale che questa tre giorni propone, specialmente per chi
fa politica nei movimenti in Italia.

E’ segno che è possibile intrecciare linguaggi e pratiche potenzialmente
molto lontane, nel caso dell’accademia guardata con giusto sospetto da parte
delle attiviste: qui sembra non esserci quella pericolosa lontananza tra
pratica e teoria, o almeno non così tanta come quella che in Italia si è
andata solidificando dagli anni ’80.

Questo salto di qualità è il frutto dell’ottimo lavoro fatto dalle 7
associazioni organizzatrici nella scelta delle relatrici, considerando che
la maggior parte di chi ha affrontato viaggi anche molto lunghi e faticosi
lo ha fatto a sue spese o, come nel mio caso, grazie ad una colletta per non gravare in modo eccessivo su Marea.

La violenza della sharia e della politicizzazione della religione nel mondo
islamico irrompe in maniera drammatica attraverso l’intervento
dell’attivista sudanese {{Asha Elkarib}}.
Nel suo racconto c’è tutto il tragico precipitare della situazione in Sudan
da quando, a partire dagli anni ’80, il problema economico del paese si è
trasformato in una guerra religiosa che ha costretto le donne, con
l’imposizione della sharia da parte degli islamisti, a tornare ad un
medioevo mortale.
_ La flagellazione pubblica di una donna per strada, rimbalzata pochi giorni
fa nel mondo attraverso un video immesso su youtube, è solo uno dei casi
della serie infinita e quotidiana di violenze perpetrate contro le donne nel
paese africano in nome e per conto della religione.
”Tutto il mondo ha riconosciuto il governo islamista, e questo perché la
condizione delle donne non interessa a nessuno, nonostante la patente e
continua violazione dei loro diritti umani” – rimarca Asha. E uno degli
effetti collaterali più spaventosi è quello di creare un clima di
autocolpevolizzazione che limita ulteriormente l’agire femminile”.

La geografia del dolore e della violenza non ha confini, e lo stesso
orribile quadro viene proposto dalle donne dei paesi Balcanici, da dove
arriva la denuncia della kosovara {{Sevdije Ahmeti}}, che reclama maggiore
attenzione e denuncia verso la micidiare arma dello stupro etnico. _ Certo, ci
sono state numerose risoluzioni anche da parte di organismi autorevoli come
le Nazioni Unite, ma la domanda è: quando si spengono i riflettori che
accade alle donne costrette a vivere spesso a fianco dei loro violentatori?

E poi ancora la giordana {{Leyla Hamarneh}} che invita tutte a iniziare una
campagna di tolleranza zero nei confronti della applicazione della sharia, e
a lottare in modo sempre più aperto per l’affermazione e la difesa della
secolarizzazione. Un segnale lanciato anche e soprattutto verso le giovani
generazioni di donne e uomini nei paesi arabi e mediorientali, un segnale
particolarmente importante da dare anche alla sinistra occidentale affinchè
sappia che i movimenti femministi di quei paesi non accettano ambigue e
pericolose tentazioni e derive relativiste.

Molto, molto altro è stato questo incontro internazionale, e davvero troppo
poco riesco a restituirvi ora.

Vi rimando, tra qualche giorno, allo speciale
che pubblicheremo sotto forma di audio e video al sito
[www.radiodelledonne.org->http://www.radiodelledonne.org] e da fine febbraio al numero speciale sulla
globalizzazione che Marea editerà in previsione dell’appuntamento Punto G
del 24/26 giugno 2011 a Genova.

Ancora un grazie alle meravigliose 7 organizzazioni madri dell’evento:
Antico, Ife, Heya, Owsa, Owfi, Act e Wilpf, e arrivederci a Genova.