Pari opportunità. Dagli Stati Generali delle donne agli Stati Generali delle Commissioni regionali
Quella degli Stati Generali è una pratica ormai diffusa come “luogo” di dibattito, confronto, elaborazione di strategie, su tematiche di consistente rilievo politico-sociale, tra stakeholder di vari settori e con finalità coincidenti.
All’interno di essi, particolare interesse hanno acquistato quelli che si occupano di questioni di genere, con l’obiettivo di stimolare la democrazia sostanziale e paritaria, di fatto ancora lontana dall’essere realizzata.
Ricordiamo che gli Stati Generali delle Donne sono stati convocati per la prima volta da Isa Maggi, il 5 dicembre 2014 a Roma, presso la sede italiana del Parlamento Europeo. Da allora, è iniziato un percorso che ha coinvolto le Regioni italiane e le Istituzioni su temi che riguardano il benessere sociale, le politiche del lavoro, della cultura, della pace, del dialogo, della salute, dello sviluppo, con l’utilizzo di “linguaggi e approcci innovativi … per sperimentare nuove soluzioni” (Statement novembre 2024).
Il linguaggio, infatti, ha valenza fondamentale nell’attività degli Stati generali delle Donne, che, nel 2020, hanno dato vita a “Le parole delle donne”, nella cui prefazione così scrive Ida Maggi: “Le parole creano la realtà… Una parola può cambiare un evento, un sentimento, la nostra vita e l’intero assetto del nostro modello sociale. Con le parole si può cambiare l’intera visione del mondo … e orientare uomini e donne verso modelli comportamentali diversi”.
Sicuramente, bisogna insistere nell’elaborazione di una gender analysis che non banalizzi le tematiche di pari opportunità e collochi una poderosa lente di ingrandimento su quel “pensare” che – per epocale introiezione culturale – contrabbanda per normalità (“ideale”) quello che è “normalità statistica”, ovvero dato numerico, “sacramentato” da secoli di stereotipi e pregiudizi di genere accettati come normali, appunto.
Rispetto agli obiettivi paritari, è sotto i nostri occhi il fatto che le raccomandazioni europee – peraltro non cogenti – non hanno prodotto i frutti sperati.E non di rado accade che la politica “femminile” rimanga monopolio della politica “generica” e delle sue convenienze. Non sempre, infatti, si comprende che i problemi “di genere” riguardano la società tutta, che, purtroppo, ancor oggi si deve misurare con schemi e ruoli stereotipati, ormai intollerabili.
Occorre fondare nuove regole di convivenza, promuovere buone prassi utili alla piena realizzazione di una società improntata a democrazia sostanziale, quella, per dirla con Luce Irigaray, che “comincia a due”.
Proprio per questo, gli Stati Generali si propongono di aprire alla collettività nuovi campi di ricerca, e di socializzare quanto più possibile temi che sono ancora appannaggio di una ristretta cerchia di studiose, ma che hanno portata e implicazioni globali, come ad esempio il problema del linguaggio.
La Comunicazione – uno dei temi più dibattuti fin dal Primo Forum europeo per la pari opportunità in cui ha relazionato chi scrive – rimane infatti zoccolo duro: si devono ancora fare conti con secolari “distorsioni” linguistiche antifemminili anche rispetto al “ruolo” che da più parti – al di là delle enunciazioni – si considera totale appannaggio delle donne, ovvero, il modello “ciliciato” offerto da una tradizione che stenta a rinnovarsi e a riconoscere concreto valore all’autonomia femminile. Di fatto, l’empowerment è ancora parziale, e spesso negato.
Ultima traccia di ciò è data dalla recentissima sentenza della Corte di Assise di Modena sul doppio femminicidio compiuto da un uomo che “arrivato incensurato a settant’anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate” (così la sentenza): al de quo, invece dell’ergastolo chiesto dalla Procura, è stata comminata una pena di trent’anni, ciò motivando in considerazione “della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il reato“. Sic. Una sentenza, questa, che ha suscitato grande sconcerto nell’opinione pubblica e sui Media: la motivazione addotta, infatti, al di là delle dichiarazioni “di principio”, sembra ridurre, nella sostanza, la gravità di quanto compiuto dall’uomo, uccisione della moglie/della figlia/ davanti al figlio minore, implicitamente sostanziando un “non s’ha da fare”, diretto, però, a un femminile che non vuole essere sottomesso (la moglie, aveva già denunciato l’uomo per maltrattamenti) !
Costruire politiche che contrastino concretamente la violenza maschile sulle donne significa anche riflettere sulle parole, sul loro valore, sul loro significato, ricordando che la parola è “sacramento di molta delicata amministrazione”, soprattutto se veicolata pubblicamente. In merito, Isa Maggi, raggiunta telefonicamente, così dichiara: “credo che la Magistratura abbia necessità non solo di formazione, ma di una profonda ristrutturazione”.
Di contro, e per fortuna, l’Ordine dei Giornalisti presta grande attenzione alla Comunicazione, infatti l’art 5 bis, “Rispetto delle differenze di genere”, del Testo Unico dei Doveri del Giornalista, così recita: “Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista: a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona; b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso; c) assicura, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari delle persone coinvolte.
In merito, piace ricordare che a ciò ha dato il suo contributo chi scrive, redigendo nel 2003 un “Codice di Autoregolamentazione per l’impatto di genere nei Media”, a cui hanno collaborato con note conclusive Benedetta Barzini e Norma Rangeri, allora componenti del CPO del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Il Codice è stato pubblicato dalla CRPO Calabria, diffuso in tutta Italia, inserito nel Libro Bianco UE “Women and Media in Europe” a cura del CENSIS, e recensito nel Rapporto Eurispes 2004. Senza, peraltro, dimenticare il contributo di analisi della CPO – Federazione nazionale Stampa italiana, Presidente Marina Cosi, la quale ha anche formalmente riconosciuto il valore del Codice di cui sopra.
Ma le cose da fare sono ancora tante. E altrettante sono le iniziative, e le alleanze, da attivare.
Nella prossima primavera, operando con finalità analoghe, e con dinamiche che si auspicano incisive e “innovative”, a Reggio Calabria, Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale e della Commissione Regionale per le Pari Opportunità, avranno luogo gli Stati Generali di tutte le Commissioni regionali italiane. Infatti, da poco la Calabria detiene il coordinamento di tutte le Commissioni regionali, con la nomina ad hoc della presidente della CRPO calabrese, Anna De Gaio. Tale evento, di grande importanza, sarà occasione strategica per una “lobbying istituzionale” utile all’implemento di politiche a favore delle pari opportunità.