PER NON PEDERE LA MEMORIA – Il separatismo è stato una pratica imprenscindibile per la nascita del movimento femminista negli anni 60/70
Ci siamo incontrate al Governo Vecchio il 13, il 14, il 15 gennaio 1978 , donne di molti collettivi e non, per parlare» del separatismo. L’abbiamo proposto noi, donne del Movimento Femminista Romano di via Pompeo Magno, perché lo sentivamo da molto tempo e questo incontro è stato, senza essere inutilmente trionfalistiche, molto positivo. Infatti, ci siamo ritrovate in molte a parlare in prima persona di come ognuna di noi vive il suo separatismo, di cosa esso significhi in rapporto alle altre e al maschio, i disagi che provoca e le aspettative che realizza. Siamo riuscite, e questo dimostra la validità di muoverci secondo tempi e scadenze nostre, anche a vivere di nuovo un incontro in modo femminista, senza le violenze verbali e fisiche che hanno contraddistinto le assemblee confuse e roventi del ’77. Nonostante le differenze tra i singoli gruppi e le singole donne, abbiamo perlomeno ricominciato ad ascoltarci con disponibilità, come donne che tentano di scoprire i bisogni, i perché, i desideri specifici della loro vita. Una prima risposta venuta da molti interventi è che il separatismo, insieme all’autocoscienza, è lo strumento della nostra crescita e quindi della disintegrazione del potere maschile e della falsa identità che esso ci propone. Il problema dei soldi è apparso, dalle testimonianze di molte di noi, un’approfondimento della contraddizione fra sessualità ed economia che è poi chiudere il cerchio della contraddizione donna-uomo.
L’approfondimento dell’analisi ha toccato anche le varie forme di separatezza che le donne hanno attuato nei secoli e ci siamo confermate che erano i loro modi, gli unici consentiti dalla loro coscienza politica di isolate, per sottrarsi alla violenza del maschio pagandoli atrocemente di persona finendo soffocate nei ghetti familiari, nei manicomi, nelle galere, nei postriboli, sui roghi e nelle clausure, finendo violate e uccise. L’emozione era tanta ed era voglia di capire e di muoversi. Qualcuna ha sottolineato il bisogno e al tempo stesso la paura del separatismo che è il distacco dal padre e dalla sua legge. Bisogno perché nel maschio non ci riconosciamo, paura perché riconoscerci nell’altra donna sembra un’utopia lontana. È venuto fuori il problema della capacità di sostenere il senso di solitudine che nasce al momento del distacco dal sociale maschile, che è anche il privato, cioè il momento del passaggio dalla nevrosi dell’identificazione al respiro della identità e per molte questa sensazione è stata superata con il senso di una forza nuova che era il ‘riconoscimento di se stessa nel progetto comune con tutte le altre donne. Si è detto che il maschio, attraverso l’ideologia della psicanalisi, sta tentando oggi, con il solito trasformismo che lo contraddistingue, di assimilarci ancora una volta a lui con il discorso del «maschio introiettato», sta tentando cioè come sempre di riportare la sua morte nella nostra vita. Mentre prima, infatti, per i signori della cultura ci struggevamo di invidia per il pene, ora che il pene è un po’ in ribasso ce lo attribuiscono operando il miracolo della «moltiplicazione dei peni e dei pesci». Comunque anche la presenza di quel poco di maschio introiettato, facilmente eliminabile, è ben spiegata dalla «parabola» inventata da una di noi: — C’è una fabbrica, che è il fabbricone patriarcale che fa ddt e inquina l’aria col suo veleno. Noi siamo costrette a respirarla fino al punto che ne abbiamo «introiettata» un po’. Presa coscienza che questo veleno fa male e desiderando aria pura che faccio: distruggo prima la fabbrica e/o il veleno dentro di me? — Il progetto comune con altre donne passa attraverso il rapporto tra donne. Secondo una di noi questo rapporto nasce abolendo le categorie che ci differenziano in ruoli. Cioè il confronto non è sulle diversità di ognuna ma sulle somiglianze da cui scaturisce il progetto comune. L’identità della donna, infatti, nasce dal fatto di vivere in una dimensione a nostra misura nella quale scopriamo i desideri reali. Per esempio, un conto è il desiderio di maternità e un conto è il bisogno indotto della maternità. Al bisogno corrisponde un ruolo maschile, al desiderio la mobilità dell’identità della donna. Identità che passa soprattutto attraverso la riappropriazione del nostro corpo che significa la riscoperta fatta solo da noi delle potenzialità fisico-psichiche della donna che può avvenire solo nel separatismo e nel rapporto tra donne. Non riconoscersi, ad esempio, nelle istituzioni — che non solo non ci hanno mai riconosciute ma hanno sempre tentato, invano, di distruggerci — porta, secondo un’altra di noi alla scelta del non-voto come realizzazione della nostra esistenza di donne. Il voto alle donne (senza negare nulla alla lotta delle suffragiste che non a caso è ridotta dalla «Storia» solo a questa richiesta) ha significato la concessione, fatta dal maschio alle donne, di essere uguali a lui (la parità) per avere più consenso soltanto sui suoi contenuti. Così il voto alle donne è il «riconoscimento» di un diritto senza però che le donne abbiano nessuna facoltà di gestirlo. Fra un po’ ci concederanno la «libertà» purché restiamo non libere e non liberate.
Sono comunque rimasti aperti problemi che in tre giorni non potevano essere risolti perché non basta la volontà di confrontarci ma occorre il tempo, che noi ci diamo, per costruire una pratica che ci consenta di avere un reale rapporto tra donne affinché la differenze che apparentemente ci separano non divengano egemonia, ovvero creazione di ostacoli insormontabili tra donna e donna.