Perché il FEMMINISMO deve ancora essere chiamato FEMMINISMO
Tralasciando per un minuto i maniaci del Movimento per i Diritti dell’Uomo, negli ultimi anni anche coloro che hanno sempre lottato in difesa dei diritti della donna hanno avuto l’idea sacrilega che la parola che inizia per F sia fuori moda e debba essere sostituita da qualcosa di più nuovo, dinamico e inclusivo. Presto, qualcuno chiami un esperto di marketing! Possiamo condensare un intero movimento per la parità in una emoticon? Ma, scherzi a parte, si dovrebbe veramente sostituire la parola femminismo?
Neanche per sogno. E capire da dove viene la parola femminismo è un ingrediente essenziale per comprendere il motivo per cui altre parole non possano affatto competere. Sono stati suggeriti umanesimo, egualitarismo, e altri potenziali sostituti da personaggi del calibro di Meryl Streep, ma se davvero c’è bisogno di una parola che condensi in sé la lotta per i diritti delle donne del mondo, femminismo è la migliore di cui disponiamo, e vi sono svariate ragioni storiche a testimoniarlo.
Vediamo quindi perché non è ancora il momento di buttare nell’immondizia o modificare la tua maglietta con la scritta this is what a feminist looks like. La storia della parola femminismo è leggermente controversa e ricca di colpi di scena, proprio come le ondate stesse del femminismo. È bizzarro, ma le parole possono essere davvero potenti. Diamo un’occhiata a come è nato il termine femminismo e perché non va cambiato.
Origine della parola femminismo
Ironia della sorte, la parola femminismo, usata da intere generazioni di donne per spiegare la lotta per pari diritti e opportunità, fu coniata da un uomo. Charles Fourier era un filosofo socialista francese dai principi radicali vissuto nel XIX secolo; la parola feminisme da lui inventata diventò la base etimologica del termine che conosciamo oggi. E a causa delle peculiarità di Fourier, alcuni si sono chiesti se quella parola vada effettivamente bene.
Fourier non si batteva per ottenere una totale parità fra i sessi in quanto, nel suo mondo, i due sessi risultavano essere eccessivamente diversi da un punto di vista biologico per poter essere trattati allo stesso modo. Era anche un pensatore utopico, la cui concezione di vita “ideale” era completamente in stile comunità di Grand Budapest Hotel, in cui i lavoratori avrebbero cambiato occupazione fino a 8 volte al giorno per evitare la monotonia. (In tutta sincerità, se dovessimo liberarci di tutte le parole che in inglese sono state coniate da strani tizi bianchi non ci rimarrebbe molto di cui parlare).
Fortunatamente, il suo feminisme fu rapidamente adottato dagli attivisti e cominciò ad apparire anche in inglese. L’ironia della sorte vuole che il termine sia apparso per la prima volta sul quotidiano The UK Daily News negli anni ’90 del 1800. “Ciò che il nostro corrispondente da Parigi definisce come un gruppo ‘femminista’[…] nella Camera dei Deputati” dà l’impressione di essere un avvertimento che implicava che l’ideologia potesse rivelarsi estremamente pericolosa. Approdò invece negli Stati Uniti circa un decennio più tardi, in un articolo redatto dalla suffragetta francese Madeline Pelletier (che, oltretutto, portava alla grande completi da uomo e bombette e fu la prima psichiatra donna della storia di Francia).
Un altro aspetto interessante della storia della parola femminismo è il fatto che, sebbene notevoli quantità di donne nella storia si siano prodigate per raggiungere obiettivi femministi come il diritto di voto alle donne e l’accesso all’istruzione, fino alla metà del XX secolo, raramente usavano definirsi femministe. Persone come Elizabeth Cady Stanton non usavano quella parola. Il termine femminista divenne effettivamente popolare con la seconda ondata del femminismo, negli anni ’60 e ’70. È invece entrata nel vocabolario inglese molto più recentemente di quanto ci si possa aspettare: solamente circa 50 anni fa.
L’attuale controversia sul termine che inizia per F
In tempi recenti, il termine femminismo si è dovuto misurare con un non indifferente chiacchiericcio sul fatto che si potesse considerare “antiquato”, o che dovesse essere “aggiornato” se non addirittura “depennato”. Le argomentazioni spaziano dalle più ridicole (“Il problema del sessismo è stato risolto, abbiamo il voto, non c’è niente di cui lamentarsi”) ad altre più serie.
Il femminismo viene accusato di essere un termine antiquato, aggressivo, non sufficientemente inclusivo, incapace di risolvere il sessismo e carico di un bagaglio troppo grande. Sono state suggerite alternative come umanesimo, o egualitarismo, ma ritengo che attenersi alla parola femminismo sia la cosa migliore, per quanto problematica. Ecco perché.
Perché umanesimo non è un valido sostituto
La parola umanesimo è stata buttata lì come alternativa a femminismo, dal momento che ha un suono molto simile, ma sembra essere più inclusiva nel considerare l’umanità nella sua interezza. Ad esempio, Sarah Jessica Parker ha detto: «Non sono femminista, sono umanista». Stesso discorso per Meryl Streep. Il problema? Essere umanista non riguarda la semplice dichiarazione di essere a favore di eguali diritti per tutte le persone nel mondo. Racchiude in sé una categoria filosofica e, volenti o nolenti, utilizzarla senza capirne il significato è un problema.
In sostanza, l’umanesimo consiste nel credere che la fonte dei valori umani non sia Dio, bensì l’umanità stessa, nello specifico la nostra capacità di essere razionali. Rappresenta anche la celebrazione della vita umana e dell’individuo ed esiste in termini di tradizione filosofica sin dai tempi dell’Illuminismo europeo. Secondo quanto riportato dalla New World Encyclopedia, l’umanesimo fa riferimento a qualunque prospettiva si concentri sulla centralità e sugli interessi dell’essere umano. Si riferisce inoltre al credere che la ragione e l’autonomia siano le fondamenta dell’esistenza umana, e che le basi dell’etica e della società siano l’autonomia e l’uguaglianza morale.
È una valida prospettiva (i matrimoni umanisti sono ragionevolmente popolari), ma non significa concentrarsi sui diritti di ogni essere umano. Come spiegato dalla blogger Jarrah Hodge in un intervento per il sito Gender Focus. Non ha nulla a che vedere con i diritti o le pari opportunità, o per lo meno questi non sono i temi centrali, per cui usare questo termine in quel contesto equivale a farne un utilizzo decisamente errato. Gli umanisti contrari al femminismo esistono eccome. l’umanesimo comporta una dedizione al razionale e allo scientifico, nonché un rifiuto dell’esistenza di poteri divini e soprannaturali.
Sono consapevole del fatto che si tratti più di un modo di rigirare una frase, che di una vera e propria posizione, ma se c’è una cosa di cui è consapevole una femminista convinta è proprio l’importanza delle parole. Questo non significa nemmeno che Sarah Jessica Parker non sia un’umanista filosofica. Magari lo è!
Perché nemmeno egualitarismo è così utile
L’essenza ultima del femminismo è il suo concentrarsi sugli svantaggi e la disuguaglianza riguardanti un gruppo in particolare: le donne. Ed è per questo che dire «Ma io credo nella parità di tutti!» non centra il punto al cento percento.
Credere semplicemente che tutti debbano godere degli stessi diritti non significa che sia così. E il punto del discorso è proprio questo, il femminismo affronta il mondo per quello che è: una realtà nella quale una categoria in particolare subisce delle discriminazioni di genere. Se da un lato l’obiettivo ultimo al quale si aspira è la parità per tutti, la situazione attuale ci mostra un mondo nel quale le donne vengono ampiamente discriminate. E questo problema va affrontato affinché ci possa essere parità per tutti. Dire di credere nell’egualitarismo equivale a credere in un mondo di case ben costruite, ma in cui metà dei materiali utilizzati è bruciata o marcia. La casa non può essere costruita a meno che questi materiali non vengano riparati.
Per renderlo più inclusivo, dobbiamo cambiare il femminismo stesso, non il termine che lo definisce
L’utilizzo della parola femminismo non dovrebbe impedirci di notare altri aspetti dell’assenza di parità all’interno del movimento. Il concetto di femminismo intersezionale, nella sua concezione più ampia, fu istituito per permetterci di comprendere più a fondo la discriminazione nei confronti delle donne, così come chiarire il fatto che il sessismo sia inderogabilmente legato a razza, classe sociale e altri fattori.
Il famoso termine womanism, così come fu coniato dall’autrice Alice Walker, rappresenta un tentativo di rispondere almeno in parte al problema dell’esclusione: come possono le donne di colore sentirsi a proprio agio e ascoltate all’interno di un movimento storicamente dominato per lo più da donne bianche? Si tratta di un discorso ancora aperto, ed è importante che tutti abbiano uno spazio dove sentono che ciò per cui lottano è il fulcro del movimento. Ma sostituire il femminismo con una parola che non rende giustizia alla lotta di nessuno? Credo sia un po’ esagerato.
Per concludere: #Femminismo non è una parolaccia!
Una parte del valore della parola femminismo affonda le radici nella sua stessa storia. Questa parola onora la memoria di persone che nel passato si sono battute – talvolta contro un’opposizione davvero tremenda – per gli stessi valori, nonostante definissero tutto ciò con termini diversi. A partire dagli albori del femminismo, fino ad arrivare alle suffragette, alle seguaci di Gloria Steinem e a quante lottano per la genitorialità pianificata, si tratta di una parola che innanzitutto si veste di storia. E buona parte di quella storia va celebrata, anche se, come spesso accade, non è affatto semplice. Ricordare non significa essere d’accordo su tutto, ma essere semplicemente al corrente di ciò che è accaduto.
A dirla tutta, è anche la parola migliore che abbiamo a disposizione. Nella sua essenza ultima punta a migliorare lo status delle donne come gruppo nel mondo, una battaglia ben lontana dall’essere risolta. L’ONU stima che incrementare la partecipazione della donna nella forza lavoro e offrirle uno stipendio equo in tutto il mondo aumenterebbe il livello dell’economia mondiale di 17 bilioni. Sì. Proprio bilioni.
Alcuni lo percepiscono come un termine “aggressivo”, ma quando ci si trova di fronte a situazioni quali un bullismo misogino all’ordine del giorno, un tasso di stupro aumentato di 29 punti percentuali nell’ultimo anno nel Regno Unito, 15 milioni di fanciulle nel mondo che ogni anno sono costrette a sposarsi quando ancora sono bambine, per non parlare di altri innumerevoli esempi lampanti del fatto che le donne siano ancora considerate cittadini di seconda classe, l’aggressività diventa una necessità.
Il femminismo ha il compito di dar voce e rendere giustizia non solo a persone bianche del ceto medio, cis e fisicamente abili, ma perlomeno questo aspetto inizia a emergere. E, a dirla tutta, al mondo non esiste un’altra parola in grado di fare ciò che fa e incapsulare il significato che ha questo termine, o perlomeno non ancora. Lunga vita alla parola che inizia per F. (28 ottobre 2016 di Elisa Sanguineti*)
Immagini: CarnivalGoldfish, airspin, SillyTees, MisandryOverMisogyny/Etsy; Charles Chusseau-Flaviens, Schlesinger Library at Harvard/Wikimedia Commons, American Humanist Association
Fonte: Bustle