Dopo il Pentirsi di essere madri, testo indubbiamente complesso e controverso, ho riletto Perché non abbiamo avuto figli. Donne “speciali” si raccontano, testimonianza ed augurio tacito fatto da donne ad altre donne: non tradirsi, vivere in dignità e lealtà, grate per il buono ricevuto, ma nel rispetto pieno di chi si è, poi, diventate.

Se una donna vive la propria vita fino in fondo a suo modo e come meglio può, la sua vita non diventerà soltanto un esempio, ma una gioia per gli altri, un dono che le sarà restituito mille volte, fra le persone giuste e di cuore.

Alle parole di Clarissa Pinkola Estès seguono narrazioni dove le intervistate affrontano l’assenza/presenza del desiderio di maternità e delle rappresentazioni di una propria maternità simbolica.

La messa in discussione della obbligatorietà a seguire strade percorse dalle proprie madri rende legittimo, in una sorta di autorizzazione collettiva, pensare alla maternità non (più) come ad un assoluto irrinunciabile.

Le ragazze del ‘68, lo sottolinea amabilmente Serena Dandini, rimangono sempre delle ragazze: hanno vissuto certezze, inquietudini, tormenti, proclamato il giusto e sacrosanto il diritto alla parità di genere, talvolta intinto nel rammarico per l’assenza, nelle proprie madri, di una complicità che forse le avrebbe agevolate nella conquista del diritto, pieno, alla parità di genere.

Bene lo esprime Dacia Maraini nel suo Donne mie, sintesi del troppo dolorosamente malvissuto.

Donne mie illudenti e illuse (…) nessuno però vi insegna ad essere orgogliose, sicure, feroci, impavide (…) sappiate che se volete diventare persone, e non oggetti, dovete fare subito una guerra dolorosa e gioiosa, non contro gli uomini, ma contro voi stesse (…). Una guerra grandiosa contro chi vi considera delle nemiche, delle rivali, degli oggetti altrui; contro chi vi ingiuria tutti i giorni senza neanche saperlo, contro chi vi tradisce senza volerlo, contro l’idolo donna che vi guarda seducente da una cornice di rose sfatte ogni mattina e vi fa mutilate e perse prima ancora di nascere, scintillanti di collane, ma prive di braccia, di gambe, di bocca, di cuore, (…) dobbiamo uscire donne mie, stringendoci fra noi per solidarietà di intenti, libere infine di essere noi intere, forti, sicure, donne senza paura.

Forse in quelle donne, poi madri, come sottolinea Mariella Loriga Gambino, s’insinua, subdolo, il tormento di una propria incompletezza esistenziale, quel biasimo sanzionante i comportamenti della figlia, espressione anche, e forte, di un conflitto fra generazioni, in grado di dare vita a molto dolore in entrambe.

Se percepiamo una sofferenza che ci libera, perché dichiarandola a noi stesse meglio possiamo prenderci cura di quanto provato, accade altresì di impantanarci dentro un dolore che rallenta e confonde, tanto scandito da inquietudine quanto reso aspro dal logorio dell’indenunciabile, spesso anche dell’intraducibile.

Entrambi abbisognano di tempo e pazienza per essere ascoltati, capiti e, dunque, attraversati. Per quanto umanamente possibile.

La libertà di scegliere se riprodurci o non farlo, come narrano in modo a volte struggente alcune delle intervistate, si àncora alla necessità di poter dialogare con un sé impersonato da propri oggetti interni.

Ma non solo, come sostiene Ida Dominijanni.

Se negli anni 60/70 si sono infatti prese le distanze dalla maternità come destino, soprattutto dalla pesantezza di questo destino, ben presente nella cultura mediterranea, oggi la maternità appare in crisi e la scelta di non riprodursi viene interpretata come il permettersi un lusso , del tutto incomprensibile, e socialmente biasimevole.

Una scelta a riprodursi richiede però anche il coraggio di far sentire le proprie figlie donne soddisfatte, capaci di farcela come duellanti con l’uomo, come afferma con franca eleganza Piera degli Esposti nell’intervista rilasciata a Paola Leonardi nel succitato testo.

Un* figli* rimane simbolicamente un dono fatto alla vita o a qualcuno in particolare, un tributo pagato alla comunità.

Comporta il passare dall’ancora al non più, include interrogativi e speranze su molti aspetti del proprio sé.

Una figlia che parla alla propria madre da madre a madre?! Una donna che incontra le sembianze della madre che sa di non poter essere o che teme, anche, di aver (ancora) obbligo ad essere?!

Non solo, forse, occorre rileggere quanto di ingombrante, doloroso ed irrisolto, di non facilmente emulabile, una donna porti dentro di sé rispetto al proprio materno, ma anche poter pensare un soggettivo viversi di futuro oggettivamente fatto di luci (e delle inevitabili ombre).

Note di riferimento   

La Tv delle ragazze Gli stati generali 1998/2018

Donne mie – come riportato in www.poesie.reportonline.it/poesie-di-dacia-maraini letto il 15-3-2019 Curare nella differenza ( a cura di P. Leonardi) Franco Angeli,Milano,2002 ,pp.67-72  

L.Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma,1991

P.Leonardi F.Vigliani, Perché non abbiamo avuto figli Donne “speciali” si raccontano, Franco Angeli Le Comete, Milano, 2009