In questo film di esordio, Laura Bispuri riesce ad esprimere con grande maestria la fatica e il dolore di essere donna in un mondo arcaico, come quello delle montagne nel Nord dell’Albania, dove è ancora sentita l’antica legge del Kanun, ossia la codificazione patriarcale dei sessi nella società e nella famiglia. Diventare vergine giurata è la sola via di “libertà” che Hana/Mark pensa di avere per contrastare il destino che le si prepara in quella società. Alba Rohrwacher accompagna lo spettatore lungo questo percorso femminile di consapevolezza e cambiamento, grazie ad un’interpretazione incredibilmente intensa.

Laura Bispuri, il tuo film Vergine Giurata è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones. Cosa ti ha colpito di più nel romanzo?
Da subito, ho sentito che nel romanzo c’era una storia forte che poteva incuriosire e ho provato un innamoramento per Hana/Mark perché ci sono delle parti di me legate a questo personaggio; poi, ho avuto la sensazione di potere fare un discorso contemporaneo sul mondo femminile, sull’identità e sulla libertà. Così, ho cominciato a studiare l’Albania, la cultura delle vergini giurate, delle montagne. E’ stato un lungo percorso quello della realizzazione del film. Durante l’attesa produttiva, ho cercato con Alba (Rohrwacher) e con Francesca (Manieri) di stratificare il film il più possibile e penso che ciò sia servito. Perché il tentativo, alla fine, è sempre quello di lavorare su una semplicità -cosa molto difficile per le vergini giurate- per poi cercare tutti i piani di complessità. La mia idea è di fare un cinema accessibile a tutti, non d’elite; non amo molto la definizione di film d’autore perché in Italia questa “etichetta” rischia di ghettizzare.


Mi sembra interessante che Hana riesca ad accedere a una femminilità autentica, altrimenti negata nella società patriarcale da cui proviene, grazie alla trasformazione in Mark e, poi, di nuovo in Hana.

La sensazione che mi ha dato subito Hana/Mark è stata quella di avere davanti un personaggio complesso che fa dei percorsi non per forza lineari e che ogni volta che attraversa un elemento – per esempio il maschile- comunque porta dentro di sé parti femminili e viceversa. Il personaggio fa un percorso in Albania dal femminile al maschile, in Italia al contrario. C’è una struttura avanti e indietro, la cosa più difficile da realizzare ma che noi abbiamo difeso perché ci sembrava che proprio questa struttura rispecchiasse la complessità di Mark/Hana. Rispetto al libro, la voglia era di arrivare sul finale del film a un personaggio che comprendesse entrambe queste anime, ma non è stato facile mostrare a livello estetico la trasformazione che subisce il personaggio nella scena in cui Hana entra nel locale. Scherzando dicevo che, se Vergine Giurata fosse stato un film americano, sarebbe entrata con i tacchi a spillo. Ma io non volevo questo. Ad Alba, prima di girare questa scena, ho detto “giochiamo con i costumi e vediamo che succede” e la sensazione era di non riuscire a “tradire” Mark. Così alla fine ho capito che bisognava raccontare un cambiamento con un’onestà verso il personaggio e giocare sui due elementi, maschile e femminile, ancora una volta in modo delicato e non da “maschera”.

Come sei arrivata alla scena del bagno in cui Hana/Mark scopre, grazie a Bernhard, la sessualità?
Alcuni mi hanno detto che sembra un rapporto omosessuale. Sicuramente mi piaceva avere anche su Bernhard (Lars Eidinger ), il custode della piscina, un punto di domanda, un’ambiguità tale da giustificare l’attrazione tra loro. Il lavoro è stato quello di farli incontrare su un piano che permettesse di “riconoscersi”. Nel libro, non è così forte questo elemento sessuale, l’incontro con il maschile è intellettuale, ci sono delle cene in cui Mark parla di poesia con quest’uomo. Nella scrittura del film, invece, ci sembrava strano non parlare della dimensione sessuale, fingere che non fosse importante. La sensazione era di avere un personaggio che ha una questione fortissima con il suo corpo – come tutte le vergini giurate- e quindi non raccontarne la sessualità, non attraversare questa dimensione, avrebbe significato aver paura di affrontare qualcosa che, invece, è diventato il centro del film.

Anche il rapporto “padre-figlia”- quello cioè tra Hana/Mark e lo zio che la rende parte della sua famiglia- mi sembra un tema centrale in Vergine Giurata.
Tutto il percorso di Hana nasce con la morte dei genitori, accennata all’inizio del film, quindi con la perdita di un centro che è ciò che questo personaggio cerca per tutto il film. Hana crede di averlo ritrovato nello zio con cui s’instaura un rapporto fortissimo anche perché lui desidera avere un figlio maschio, che è fonte di orgoglio nella cultura albanese delle montagne, e lei non si riconosce nel modello femminile di quella cultura. Anche la “sorella” Lila non vi si riconosce, però finge di accettarne le regole. Hana invece rilancia; lo zio crede di aver compreso la sua indole e le mette in mano un fucile indicandole la strada che la porta a diventare vergine giurata. Lo zio è in buona fede, pensa veramente che questa sia l’unica possibilità per Hana di continuare a vivere in quel contesto, anche se alla fine si commuove, rimette in discussione quello che sta facendo. Le vergini giurate sono donne/uomini che rivendicano la loro scelta e ne sono orgogliose ma, comunque, si tratta di una scelta estrema che comporta solitudine per tutta la vita e privazione di ogni affetto e della sessualità. La cosa difficile del film era far capire che da una parte c’è quest’uomo, dall’altra Hana che ama stare con il fucile in mano ma anche cantare, che ha dentro di sé un’ambivalenza non permessa nel luogo in cui vive. Tutto il film sarà riuscire a cambiare vita, paese, mettere in discussione sulla sua pelle tutto, fino a ritornare a questa sua ambivalenza con armonia e con forza, soprattutto.

La cinematografia di tutto il mondo, negli ultimi anni, pone spesso al centro delle storie il rapporto del figlio/a con il padre, meno frequentemente quello con la madre.
E, infatti, (ride) il mio prossimo film è tutto un viaggio dentro al rapporto madre-figlia. Questo rapporto viene spesso raccontato in maniera semplicistica, ritraendo le madri o come sante o come pazze omicide; non mi sembra che nel cinema si sia mai raccontato fino in fondo il gran casino che è la maternità con i buchi neri e l’amore travolgente. Ho una figlia e la mia vita personale mi mette ogni giorno in contatto con questo rapporto che m’incuriosisce, mi fa pensare, ricordare me bambina, rimettere in discussione il rapporto con mia madre. Mi sembra importante andare a raccontare uno dei rapporti centrali della nostra società quindi ancora una volta una storia universale e contemporanea.

Biondina inizia con una ragazza che fugge dalla madre, Passing Time termina con lo scambio di abiti tra la protagonista e il nonno morto, Vergine Giurata descrive un articolato percorso della femminilità. La ricerca dell’identità mi sembra il filo conduttore di tutti i tuoi lavori, anche del prossimo a giudicare dalla storia.
C’è anche un altro mio cortometraggio, Salve Regina, dove il percorso dell’identità è meno presente. Parla dell’incontro tra una donna sovrappeso che fa le pulizie in una piscina e un uomo di una certa età sulla sedia a rotelle; due persone anche in questo caso “incastrate” nei corpi che non possono fare il bagno in piscina se non aiutandosi: lei si vergogna a stare in costume per via del grasso, lui è handicappato. Insieme possono uscire allo scoperto. Io mi riconosco nel bisogno di prendere per mano un personaggio e accompagnarlo in un percorso che ha a che fare con la libertà e con l’identità perché, per me, il percorso dell’identità è un percorso di libertà.

Come mai Vergine Giurata secondo te è stato così apprezzato dalla critica e dal pubblico?
Dopo Berlino, mi hanno invitato a presentare il film a Copenhagen, New York, San Francisco, Cracovia, in Francia e poi ancora in India, Cina, Russia. La cosa che più mi ha impressionato è stata confrontarmi con questo pubblico del mondo, di età e culture molto diverse, eppure sempre coinvolto dal discorso del corpo e dell’identità, oltre che dalla curiosità verso le vergini giurate. Penso che il film sia stato così apprezzato perché racconta un tema universale; soltanto così riesci a coinvolgere così tante persone. In Albania, il film è stato molto applaudito, anche se durante la conferenza stampa un gruppetto di persone ha polemizzato per la scena di sesso come rivendicando il Kanun anche a Tirana. Io credevo che questo problema fosse sentito soltanto nell’Albania delle montagne, invece…. Ad Alessandria d’Egitto il film ha vinto tre premi; in Marocco un premio ma alcune donne con il velo sono uscite dalla sala nel momento della scena di sesso. Credo che il film crei tensione.

Stai scrivendo anche il tuo secondo film con Francesca Manieri.
Quello con Francesca é uno dei rapporti più importanti del mio lavoro -dura da tantissimi anni, dai cortometraggi, eccetto Biondina – profondo, di sintonia, a volte di scontro passionale rispetto a quello che si va a fare. Francesca è una professionista geniale con la quale c’incontriamo rispetto a un cinema che ci piace raccontare. Adesso poi stiamo cercando di avere un “metodo”, un modo di lavorare che ci aiuti e mi sembra che stia funzionando.

C’è differenza secondo te tra il cinema scritto dalle donne e quello degli uomini?(ride) Dico sempre che esistono soltanto buoni film e brutti film. L’arte va aldilà del sesso, non mi piace mettere delle categorie. Chiaramente il cinema delle donne fa parte di una battaglia e mi piacerebbe sentire ancora di più questa sensazione di lotta, questo sforzo di “venire fuori” in un panorama sociale difficilissimo. Il sentimento di lotta è fonte di grande forza nell’affrontare il mio lavoro. Vorrei che dilagasse di più.