Pioniere. Tina Pizzardo raccontata da Mara Gasbarrone
In anticipo sui tempi – Laureata in matematica, iscritta al partito comunista, condannata a un anno di carcere per il suo impegno politico. Tina Pizzardo fu amica e confidente di personaggi cardine del Novecento, come Altiero Spinelli e Cesare Pavese. Ma prima di tutto fu una donna libera, in anticipo sui tempi
Mara Gasbarrone
Se anche ci limitassimo a definire questa donna attraverso i suoi affetti, già questo le garantirebbe una posizione di primo piano nella storia del Novecento: compagna leale di Altiero Spinelli, prima e durante la sua lunga prigionia, amica di Cesare Pavese – era la “donna dalla voce roca”, che lui pretendeva solo per sé -, madre di un celebre studioso del mondo del lavoro, che molti di noi hanno conosciuto e stimato, come Vittorio Rieser. Ma Tina Pizzardo esige che si parta da lei, prima ancora che dagli uomini eccezionali che l’hanno circondata.
Nata a Torino nel 1903, la sua era una famiglia della piccola borghesia, molto legata ai valori del cattolicesimo, nella quale erano fiorite numerose vocazioni ecclesiastiche, fino a uno zio cardinale. Rimase orfana di madre a nove anni, e questo è il primo dei “casi” che decisero la sua vita. “In collegio, non più represso dalla severità paterna, il mio carattere ribelle ha preso sicurezza e vigore”, raccontò nelle sue memorie, pubblicate dopo la sua morte[1]. E in collegio imparerà anche tante accortezze che le torneranno utili più tardi, quando due volte finì in prigione per la sua militanza antifascista. Una vincita alla lotteria del padre le consentì di iscriversi all’università, dove si laureò in matematica nel 1925. Discepola del grande matematico Giuseppe Peano, nel 1926 diventò socia della Accademia pro interlingua (API) che intendeva realizzare il progetto ideato da Peano di una lingua universale, una sorta di esperanto, un latino dalla grammatica molto semplificata, integrato dal vocabolario comune delle principali lingue europee[2].
Ma soprattutto, nel luglio del 1926, Tina aderì al Partito comunista. Qualche mese prima, in marzo, era venuta a Roma per partecipare al concorso per l’insegnamento nelle scuole superiori. Qui entrò in contatto con i compagni della capitale e in particolare con Altiero Spinelli, allora organizzatore della gioventù del Partito comunista, con il quale nacque un amore vissuto nel mondo reale per pochi mesi, e alimentato poi attraverso le lettere che i due si scambiarono, dopo che entrambi finirono in carcere, Altiero per nove anni (1927- 1936), seguiti dal confino a Ventotene, Tina per un anno nel 1927, e di nuovo per qualche mese nel 1935. Tina scrisse ad Altiero circa mille lettere, in media due a settimana.
Vinto il concorso per l’insegnamento, nell’ottobre del 1926 Tina aveva preso servizio a Grosseto come docente di matematica e fisica al liceo classico. Contemporaneamente, era segretaria della nascente federazione comunista di Grosseto e per questo nel settembre del 1927 fu arrestata e condannata a un anno di carcere e a tre di vigilanza speciale. Scarcerata il 13 settembre 1928, fu proprio Peano, antifascista, socialista e pacifista, a proporle un posto all’Università di Torino come sua assistente. L’interdizione dai pubblici uffici le impedì sia il lavoro universitario che il ritorno nella scuola pubblica. Il suo sostentamento, da allora, provenne dalle lezioni private e dalla direzione della Colonia di Igea marina. Tornarono utili le relazioni ecclesiastiche e la benevolenza della dirigente delle donne fasciste di Rimini.
Dal 1932 si inserisce nell’ambiente della “cospirazione alla luce del sole” di Giustizia e Libertà. In casa Carrara-Lombroso – lui medico del carcere di Torino, uno dei dodici professori che rifiutarono il giuramento al regime, lei figlia di Cesare Lombroso-, Tina fu ospite abituale insieme a Michele e Clara Giua, Adriano
Olivetti, Barbara Allason, Giulio Muggia, Leone Ginzburg, Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg e maestro di Rita Levi Montalcini, il quale la assunse per qualche tempo come tecnico biologico nel suo laboratorio.
Lei comincia ad avvertire il logoramento di un’attività politica clandestina dagli scarsi frutti e dai molti sacrifici. “Fa ridere a ripensarci che povera cosa era in quegli anni la lotta: un po’ di soccorso rosso, non cedere, scambiarsi o distribuire in giro libri, giornali proibiti e notizie delle carceri, notizie dall’estero e soprattutto discutere a non finire. Niente di più, ma bastava a mandarti in galera”.
Nell’estate del 1933, conoscerà Pavese, tramite Leone Ginzburg, “il più intelligente, ma soprattutto il più buono, più fraterno, più caro dei nuovi amici”. Che Pavese sia un dispregiatore delle donne, questo le fa venire “voglia di essere amica di un tipo così: per fargli vedere che non tutte le donne sono lagne”. Le sfide piacciono molto a Tina.
Praticamente negli stessi giorni, conosce anche quello che diventerà suo marito: l’ebreo comunista polacco Henek Rieser, cui andrà a chiedere in prestito un sacco da montagna per un’escursione al Gran Paradiso. Questa la prima impressione che ne ebbe: “Mi è parso vecchio (mentre aveva solo ventinove mesi più di me), malandato in salute (tubercolotico?), goffo, timidissimo e, per i libri in varie lingue che riempivano la sua camera, un compagno di vasta cultura”. Vale la pena sottolineare il dettaglio precisissimo della differenza di età, per una volta quella “giusta” in una coppia, perché Tina aveva quattro anni più di Spinelli e cinque più di Pavese.
“Dopo Altiero per la prima volta (in Pavese) trovavo un uomo che aveva tutti i pregi: intelligenza, cultura, carattere, prestanza fisica, ma lui era un poeta mentre Altiero mi rimproverava sempre di interessarmi più di arte che di filosofia. (Adesso aggiungo: e più di Altiero, Pavese aveva in dispregio le donne)”. Si incontrano quattro volte, andando in barca sul Po. Pavese non la cerca, lei non ha il coraggio di farlo, sentendosi un po’ in soggezione davanti al grande poeta, e finisce per stringere con Henek.
Scopre di avere in comune con lui la visione politica: entrambi condividevano la necessità di un’alleanza larga con i socialisti in funzione antinazista, linea che in quel momento era minoritaria nel Pci. Per questo “io mi stavo allontanando dal partito mentre lui, con ben altra esperienza della mia (aveva militato nel partito polacco e poi in quello tedesco), pur riconoscendo e analizzando gli errori del partito, era rimasto a esso fedele, e me ne spiegava le ragioni. Troppo ignorante per ribattere o essere persuasa, ero però vivamente interessata. Un compagno che non si contenta delle parole d’ordine, ma critica e spiega. Presto ho scoperto che in fatto di cultura raffinata nessuno poteva stargli a paro. Per di più era anche un matematico (nel cerchio delle nuove amicizie la matematica era crocianamente tenuta in dispregio). E la sua era una cultura europea al cui confronto quella degli altri era decisamente provinciale”.
Nel gennaio del 1934, incontra però di nuovo Pavese, e accetta la sua proposta di prendere da lui lezioni di inglese. “Siamo fatti per esser amici e spero che non sia troppo tardi. O amici, o niente. O amici, o rinunziare ai nostri incontri. Ed ecco che Cesare Pavese si mette a piangere come un bambino. Ricordo la delusione, il fastidio, l’imbarazzo per quei lacrimoni che venivano giù a pioggia e rotolavano sul bavero del paltò. ‘Piuttosto amici che niente’, diceva remissivo e lacrimante. Fidava nella mia pietà. Sperava ancora. Se non avesse avuto speranza si sarebbe ammazzato”. Ancora su Pavese: “lui era capace di alzarsi alle cinque per vedermi partire col treno delle sei per Ivrea”.
Al centro di questo “ingorgo sentimentale”, Tina cerca anche di scrivere a Altiero, di andarlo a trovare appena messi insieme i soldi. “Ricordo che più di tutto mi dispiaceva non poter affrontare Altiero a tu per tu e spiegare a lui ciò che a me pareva tanto chiaro, logico, giusto. Gli avrei detto: ho rinunziato a te perché voglio il tuo bene e un giorno me ne sarai grato. La finzione del fidanzamento che ci permette di scriverci, vederci, devi accettarla come una forma di soccorso rosso. E adesso, dopo tanti anni vissuti nell’attesa di collaborare assieme, dimmi tu che cosa posso fare della mia vita che senza questo miraggio non ha più senso. Ricordati che devo guadagnarmela la vita e se non voglio chiedere grazia e tessera (fascista) mi tocca lavorare dodici ore al giorno. Non mi resta voglia energia per studiare come vorresti tu. Non che non mi piaccia studiare, ma non sono ancora abbastanza vecchia per farne il mio solo conforto”.
Nel 1935, la retata di Giustizia e Libertà. “La prima volta che vai in prigione non sai com’è, lo impari a poco a poco e, sebbene tutto sia peggio di come credevi, conservi l’illusione di uscire presto; quando ci torni, di ciò che t’aspetta ricordi solo il peggio, non sai più illuderti; anzi, pensi che resterai dentro per anni. Entro nella sezione femminile accolta con molte feste dalle suore che, come pronipote di due vecchissime e sante loro consorelle, mi ricordano con simpatia. Alla fine di giugno, con altri, torno libera con due anni di ammonizione. È certo che si voleva solo colpire Giustizia e Libertà perché Henek, schedato come comunista, è liberato in luglio. Io penso di essermela cavata perché, a giudizio della polizia, una povera professoressa che campa di lezioni private, e per di più è comunista, non poteva aver niente da spartire con quei giellisti appartenenti all’alta borghesia e tutti intellettuali di fama”.
“Henek cominciava già a parlare di matrimonio. Gli dicevo: so io perché mi vuoi sposare, perché da quando hanno messo un garage nel cortile, in quella tua camera non hai più pace. Sei troppo pigro per cercarne un’altra, preferisci sposarmi e abitare con me, che è un posto tanto tranquillo. Lui rideva; ancora adesso quando glielo dico ride, ma non ha mai protestato e forse è andata veramente così. Non avevo mai aspirato al matrimonio. Solo per aver diritto a lettere e colloqui ero stata disposta a sposare Altiero, ma gli avevo lietamente fatto notare che, non consumato, il nostro matrimonio si sarebbe potuto sciogliere quando ci fosse piaciuto. Adesso, sposando un ebreo di nazionalità polacca, avremmo potuto divorziare perché in Polonia il divorzio agli ebrei (non ai cattolici) era consentito. Con il diritto al divorzio per me il matrimonio con Henek è stato, sul momento, nient’altro che una mossa di strategia amorosa… Solo quando avrò concepito nostro figlio il matrimonio diventerà per me sacro… Avevo conosciuto troppi innamorati per illudermi sui sentimenti di Henek: gli riscaldavo l’esistenza, mi voleva bene ed era tanto pigro. Sempre molto infelice con lui, m’illudevo, come tutti gli innamorati, uomini e donne che siano, che la vita in comune lo avrebbe cambiato; ma ancora esitavo, soprattutto per Altiero. Mi ero promessa di assisterlo fino alla sua liberazione, solo allora lo avrei, con fermezza, lasciato”.
Così di Henek parla a Pavese: “No, non ero una sposa trepidante e felice; piuttosto malinconica, invece: perché sapevo di esser solo ‘voluta bene’, non amata. Eppure sentivo di potermi fidare di uno che, a differenza di me e dei miei passati amori, era tanto sorvegliato, parco di parole e di promesse, assolutamente ‒ e crudelmente ‒ incapace di mentire. E poi era buono, generoso, indulgente, oltre che, s’intende, intelligentissimo e coltissimo. Con lui sarebbero finite le tempeste di cui m’ero anche troppo compiaciuta. Con lui sarei diventata anch’io seria, equilibrata, ed era ora. Se proprio non ci fossi riuscita, lo scampo del divorzio”. Poi: “con Pavese stiamo bene insieme, ci vogliamo bene, abbiamo sempre mille cose da dirci, ci comprendiamo al volo, ci ammiriamo ‒ da ciò lui conclude: sposiamoci, e io: restiamo amici. Neanche adesso oso dirgli: non sai o fingi di non sapere che l’amore, capisci che intendo?, l’amore ci è precluso. Riprendiamo gli incontri perché m’ispira pietà, perché con lui sto tanto bene, perché il suo ostinato amore mi consola, mi vendica dei silenzi di Henek”.
L’addio definitivo con Pavese è nel ’38, quando lei gli confida di aspettare un figlio da Henek, che sarà Vittorio Rieser. “Dal nostro addio Pavese è vissuto ancora dodici anni e qualche volta ci siamo incontrati, ma senza scambiarci una parola, un saluto… Adesso per onestà devo dire che invecchiando ho capito che, se pur non è mai stato innamorato di me, Henek mi ha dato tutto l’amore di cui è capace. Con il mio carattere prepotente, i modi bruschi, scoppi d’ira, decisioni avventate, che cosa sarebbe stato di me senza il suo affetto, la sua tolleranza, la sua amicizia? Con gli anni mi sono placata, ho imparato a tacere, a richiudermi in me: ossia, per amore sono diventata simile a lui”.
Tina rivide Spinelli nel 1943, dopo la sua liberazione, entrò nel movimento federalista e si candidò alla camera per il Partito d’Azione, senza essere eletta.
Fu una donna libera, molto in anticipo sui tempi, direi a noi contemporanea, ben consapevole dei rapporti di forza che percorrevano le relazioni tra uomini e donne. E anche convinta che la politica non poteva esaurire la totalità della vita, come accadeva per i “rivoluzionari professionali”. Di lei parla diffusamente nelle sue memorie Altiero Spinelli (Come ho cercato di diventare saggio, ed. Mulino, 1988), mentre lo storico Giovanni De Luna ne tratteggia un ritratto approfondito (Donne in oggetto, ed Bollati Boringhieri, 1995), che attinge largamente alle sue memorie, in quel momento ancora inedite.(03-08-2016)
NOTE [1] Tina Pizzardo Senza pensarci due volte, il Mulino, 1996. I cinque capitoli dal 12 al 16, riguardanti la storia con Pavese, sono disponibili sul sito Classici italiani [2] Per quanto riguarda l’attività scientifica di Tina Pizzardo, si veda il contributo di Sandra Linguerri sul sito Scienza a due voci
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