Femminicidi e mentalità patriarcale: quando il “linguaggio mentale” diventa sentenza
Le sentenze non si discutono. Così si dice. Accade però che ci siano alcune che lasciano basiti, come in diversi casi di femminicidi, crimini contro cui è stata varata la legge n. 119 dell’ottobre 2013, nota, appunto, come legge contro il femminicidio.
L’ultima sentenza, in linea temporale, riguarda il caso, accaduto a Legnano, di una giovane donna massacrata dal compagno perché lei lo voleva lasciare.
I particolari della vicenda: la ragazza è stata picchiata, sgozzata, fatta a pezzi, i suoi resti sono stati tenuti dall’uccisore in un congelatore, per diversi giorni, e poi scaraventati in un dirupo. L’assassino, organizzandosi a puntino, si è preoccupato di occultare ogni traccia del delitto, fino a pagare online l’affitto della ragazza e a rispondere ai vari messaggi sul telefonino, fingendosi la ragazza, per non destare sospetti.
C’è di che inorridire, e tanto.
Il de quo non ha avuto l’ergastolo. Soltanto trent’anni di carcere (che si potranno ridurre coi noti meccanismi) : la sentenza non ha riconosciuto l’aggravante della crudeltà, né la premeditazione.
”Lei era disinibita, lui era innamorato perdutamente”, il movente non è “abietto o futile in senso tecnico-giuridico”, “l’omicidio era un modo per uscire da una condizione di sofferenza ritenuta non più sopportabile dall’uomo…la causa scatenante non è da ritenersi turpe o spregevole, non è stata espressione di un moto interiore del tutto ingiustificato“.
A parte il fatto, che di amore non si muore mai, e, soprattutto, non si ammazza, è sconcertante il linguaggio verbale usato, ovvia conseguenza di quello mentale. Ed è ben strana forma di amore quella che porta alla distruzione della persona che si dice di amare.
Sembra persistere certo maschilismo di antica memoria che considera le donne “proprietà di “e non persone autonome.
E torna alla mente uno scritto di Eutimio Ranelletti – presidente onorario della Corte di Cassazione – dal titolo “La donna giudice, ovverossia la grazia contro la giustizia”, in cui si legge «… la donna è fatua, leggera, superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, approssimativa, negata alla logica; per non parlare di quanto disse l’on. Antonio Romano, Presidente di Tribunale, durante l’Assemblea Costituente (si discuteva della possibilità di aprire alle donne l’ingresso in Magistratura…): « … ho l’impressione che essa ( la donna, ndr) non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa, richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche.“
In un modo o nell’altro, persiste, ieri come oggi, l’ancestrale tendenza a ridurre le donne a corpo, e, nel caso di specie, a indispensabile sfogo per il “riposo del guerriero”, pena la morte in caso contrario.
Si fa grande fatica a trovare parole per commentare. Soltanto tre: quo usque tandem.. ?