Provo a mettermi nelle loro teste… e poi nella mia
Come tutt* in questi giorni cerco, nelle parole di altr*, un bandolo che mi consenta di capire il perché degli attentati di Parigi.
Una amica mi ha segnalato questo articolo dal quale vorrei partire per condividere con voi questa mia riflessione.
Mi sono interrogata molto in questi giorni su cosa potesse spingere delle persone a farsi esplodere una sera qualunque portando con sé all’altro mondo 128 persone sconosciute.
Ho provato ad immagimare cosa, nei giorni precedenti all’attentato, sia passato nella testa di uno degli attentatori che si è fatto esplodere .
Avranno abbracciato e salutato gli amici, sapendo che non li avrebbero più rivisti?
Avranno realizzato qualche desiderio, magari qualcosa che rimandavano da sempre?
Avranno mangiato cose buone, come è concesso ai condannati a morte?
Si saranno lavati o si saranno lasciati andare?
Avranno dormito?
Letto un libro?
Si saranno nutriti di bellezza girando per Parigi?
Saranno stati ansiosi o invece sereni nella loro convinzione?
Si saranno chiesti se quello che stavano per fare era la cosa giusta per la loro causa?
Avranno forse guardato la tv?
Si saranno taglliati le unghie?
Avranno accarezzato un gatto che ha attraversato loro la strada?
Avranno invidiato, odiato, immaginato di uccidere un ipotetico nemico?
Avranno riflettuto o si saranno mossi solo guidati dall’emozione di un momento che poi non gli ha più consentito di tornare indietro?
E mentre facevano tutte queste cose perché l’istinto di sopravvivenza non è scattato in loro, perché non si sono fermati?
Cosa può farci odiare noi stessi al punto da andare volontariamente verso la morte sapendo oltretutto che non saremo ricordati come eroi se non da una esigua minoranza di persone?
Non so se sia l’immagine del paradiso ad attrarli verso la morte, molte persone sono attratte dal Paradiso verso la vita e fanno di sé dono agli altri. Non può essere dunque solo questo.
Molte altre persone vivono vite orribili, e quando non ce la fanno a sostenerne il peso si tolgono la vita. Non portano con loro i vicini, o peggio dei passanti che non conoscono.
Anche questa dell’emarginazione e dell’insoddisfazione non può essere, da sola, una risposta.
Nè mi convincono le storie dell’odio per il nostro modo di vita: quei terroristi sono cresciuti nella nostra cultura e se, come diceva Croce, non possiamo non dirci “cristiani” (anche se atei), anche loro non possono non dirsi occidentali.
Resta il fatto che si sono tolti la vita e che hanno portato con sé persone con le quali non avevano conti in sospeso. E mi convinco che se, come è ovvio, la religione, l’emarginazione, ecc. ecc. hanno giocato un ruolo, è però nel nucleo “umano” più che politico che forse dovremmo scavare per sapere cosa li ha ha mossi.
Provo a mettermi nelle loro teste… ma non ci riesco e ho solo domande. Mi chiedo dove altri, sui giornali o in rete, trovino fondamento per le loro certezze.
Provo infine a mettermi nella mia testa: perché 1.000.000 di morti in Iraq mi mette meno in ansia di 128 morti in Francia e perché non penso quotidianamente all’ansia di chi vive sotto le bombe ma penso a quella di chi a Parigi si interroga se andare o meno ad un concerto?
Non mi è più “vicino” il francese che l’iraqueno … mi sono distanti tutti e due: l’angoscia dell’essere in pericolo di vita unifica tutti gli esseri umani. Lo so io e lo sanno gli attentatori di Parigi, dovrebbero saperlo anche i francesi che bombardano la Siria o gli Israeliani che sparano su Gaza… o … o…
La mia amica mi contesta:
Ma anche "l'ovvio" vuole la sua fetta di torta: se davvero sentissimo il dolore di tutti come fosse nostro (o dei nostri vicini più simili a noi) sarebbe intollerabile il peso e inestinguibile la sofferenza.
Ma io non provo “dolore” per i morti siriani (o iraqueni, o … o…).
Mi duole la non consapevolezza della loro morte, come scriveva Sara Frangini, mi duole di non essermi informata abbastanza e di non aver scritto come faccio adesso.
Mi duole aver rivolto un pensiero distratto a chi sotto le bombe si chiede se vedrà un altro giorno diversamente da come faccio ora per chi si interroga nel mio mondo se sarà sicuro andare ad un concerto o prendere il treno..
Di cosa è fatto quel nocciolo che, al di là dell’esperienza, della politica, della religione ecc., consente ad alcuni di scegliere la vita e ad altri di privilegiare la morte?
Perché dalla stessa culla sono usciti vittima e assassino? si chiede il giornalista marocchino Brahim Maarad… io non lo so ma credo che dalla risposta a questa domanda dipende la possibilità dell’umanità di non perdere sé stessa. E non sarà la paura che ci aiuterà a capire.