Psicanalisi e violenza: dove sta la differenza?
Nell’ambito di un tema spinoso quale è la relazione donna-istituzione, c’è un aspetto essenziale – sommerso e volutamente ignorato – che concerne la posizione delle donne-psicanaliste e il loro destino all’interno di quel particolare “genere” di luogo istituzionale che è l’ istituzione psicanalitica – ortodossa e non.Si tratta, a dirla tutta, di un vero e proprio tabù: non se ne dice, non se ne parla e, men che meno, se ne scrive.
Ed è proprio questo silenzio – un ‘rimosso’ omertoso protetto da una sorta di inconsapevole (?) complicità ‘femminile’ – che, dopo molti anni di frequentazione di questi ‘luoghi di formazione’ e ‘di cura’ ad alto potenziale patogeno, ho deciso di rompere.
L’argomento non meriterebbe forse attenzione se non fosse che le istituzioni {di genere maschio}, fondate da uomini, cui mi riferisco, hanno l’ambiziosissima pretesa, appunto, di ‘formare’ – così si dice – donne e uomini che, attraverso una pratica {iniziatica} d’antica ispirazione – da cui, com’è noto, le donne erano rigorosamente escluse – ‘formeranno’, a loro volta, altre donne, altri uomini.
La ‘formazione’ impartita in questi luoghi, a cominciare da Freud, è {Una} ed unica per entrambe i sessi perché – si recita – fra uomini e donne egualmente soggetti al linguaggio, {non c’è differenza}.
Inutile dire che il risultato di questa negazione – e della sua teorizzazione – si traduce sul piano simbolico, in quella forma di {violenza prima} che consiste, per l’ appunto, nel rigetto della Differenza – quale che sia la differenza di cui si tratta.
Se è indubbio che la pratica di autocoscienza avviata da alcune frange del movimento femminista anni ’70, ha rappresentato per la psicanalisi un enorme {business} (moltissime donne, incapaci di gestire autonomamente la portata delle feconde contraddizioni cui questa pratica aveva dato inevitabilmente luogo, si rivolgevano, in quegli anni come oggi, alla psicanalisi), c’è da chiedersi quale {genere} di donne sia stato prodotto da una teoria e da una pratica fondate sul primato di {un solo significante} – il fallo – atto a rappresentare entrambe i sessi.
Tutto ciò non sarebbe grave per le donne se ad essere chiamati direttamente in causa non fossero i concetti di ‘cura’ e di ‘guarigione’, se una tale impostazione – patriarcale, checché se ne dica e se ne scriva – non ci interrogasse, come donne, sui suoi esiti e sui nostri destini. Quali sono per una donna gli esiti di una cura indifferenziata? Come pensare ad {un’altra cura}, a una cura a misura di donna?
Il testo integrale dell’articolo, presentato in occasione del Convegno {Le Figure della Violenza} (Facoltà di Scienze dell’Educazione, Università di Padova, marzo 2007) é disponibile in allegato.
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