Quando l’amore è un “casto ardore”: Vittoria Colonna e Michelangelo
Siamo in pieno Cinquecento. Vittoria Colonna, ai sontuosi abiti trapuntati di pietre preziose, preferiva sobri ed eleganti vestiti scuri e viveva ospite in vari conventi, quasi che solo nella quiete e nel silenzio il suo animo trovasse rifugio.
Il grande pittore abitava presso il Foro Traiano. Lei inviò un servo perché lo informasse che voleva conoscerlo. Lui, lusingato, lo seguì subito. Si incontrarono nel chiostro del convento di San Silvestro al Quirinale dove lei alloggiava… Si parlarono, si guardarono a lungo, si confidarono la reciproca stima… Lui, Michelangelo, le espose i suoi progetti: stava affrescando il Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Lei, Vittoria Colonna, scriveva versi. Anche lui, così schivo, così scontroso, si dilettava di poesia. Si amarono. Con “casto ardore”.
Lui aveva 63 anni. Lei 46. Lui, nelle faccende di cuore, era uno scettico. “Come può esser ch’io non sia più mio?” scriveva, ma per lei ebbe una vera e propria venerazione. Non per nulla, per dipingere la Madonna del Giudizio Universale pensò a Vittoria. Ma non fu il solo. Il Veronese prese a prestito i suoi tratti per la Dama che appare nelle Nozze di Cana e Raffaello a lei si ispirò per la musa Calliope del Parnaso
Vittoria Colonna era nata nel 1490 nel castello di Marino sui Colli Albani da Fabrizio, Gran Conestabile del Regno di Napoli, e da Anna dei Duchi di Montefeltro. Il padre era un celebre capitano di ventura, interlocutore del Machiavelli nei “Dialoghi dell’arte della guerra”. A Vittoria non poteva essere destinato se non un matrimonio illustre: si sposò, infatti, con lo “spagnolissimo” Ferdinando Francesco d’Avalos marchese di Pescara, un’unione voluta per ragioni politiche, dal re Ferdinando di Napoli in persona. Le nozze furono celebrate nel 1509. Capitano generale dell’esercito di Carlo V, il marchese era più spesso sui campi di battaglia che non tra le lenzuola di seta del fastosissimo letto alla francese, dono di nozze del padre di lei.
Vittoria, che del marito era perdutamente innamorata, constata malinconicamente: “Ei di me lieto, ed io beata in lui”. Francesco morì prematuramente dopo la battaglia di Pavia, a Milano, nel 1525. Alla sua memoria Vittoria dedicò tutta la sua vedovanza: e fu una memoria implacabilmente distaccata dalle vicende terrene, nutrita di fede e di filosofia platonica. Una memoria, insomma, ispirata allo spiritualismo severo del pieno Cinquecento. Il suo “Canzoniere” è un monumento funebre ad un uomo più immaginato che reale. “Scrivo sol per sfogar l’interna doglia” confessa in una poesia “Amaro lacrimar, non dolce canto, foschi sospiri e non voce serena”.
Vittoria, ai sontuosi abiti trapuntati di pietre preziose, preferiva sobri ed eleganti vestiti scuri e viveva ospite in vari conventi, quasi che solo nella quiete e nel silenzio il suo animo trovasse rifugio.
Al mattino, a Roma, ascoltava la messa e al tramonto, nel chiostro, riuniva filosofi, pittori, letterati. Un cenacolo dove passò il fior fiore dell’epoca. L’Aretino, il Tasso, l’Ariosto furono tra i suoi ammiratori. Per la sua cultura e la sua regalità Vittoria Colonna fu tenuta in grande considerazione anche da papi e sovrani.
Michelangelo le indirizzò sonetti e madrigali musicati da virtuosi della cappella papale. Con lei metteva a nudo la propria anima, la faceva partecipe della sua inquietudine d’artista. “Tra il vizio e la virtute/ il cor confuso mi travaglia e stanca / come chi il ciel non vede /che per ogni sentier si perde e manca”.
A Vittoria, Michelangelo donò il disegno di un Crocefisso che il critico Giorgio Vasari definì “cosa divina”. Una meravigliosa tavoletta che lei collocò a capo del letto, nella sua austera stanza.
Quando Vittoria morì a casa Cesarini (in convento non poteva essere curata e perciò si era trasferita presso parenti) Michelangelo era al suo capezzale. Si racconta che non osasse baciarle la fronte. Così, si inchinò e le sfiorò con le labbra la mano in segno di devozione e di rispetto. La sua stima per Vittoria Colonna era tale che gli fece dire: “Morte mi tolse un grande amico”. Proprio così, al maschile, confermando quanto già aveva scritto in una lirica a lei dedicata: “ Un uomo in una donna, anzi un dio, per sua bocca parla.”