Quanto è importante riuscire a riconoscere nei nostri comportamenti pregiudizi e stereotipi?
Non è più possibile improvvisare quando parliamo di diversità e inclusione, serve una formazione specifica. La coordinatrice Barbara De Micheli del Master in Gender Equality e Diversity Management della Fondazione Brodolini fa il punto sulle evoluzioni in corso.
— Negli ultimi anni le organizzazioni del lavoro, e in particolare le grandi imprese, dedicano risorse sempre più ingenti a iniziative di diversità e inclusione (diversity e inclusion). Si tratta di interventi motivati da spinte etiche o sociali, dalla volontà di posizionare il proprio marchio rispetto a consumatori e consumatrici che ‘a queste cose’ cominciano a far caso nell’orientare le proprie scelte, qualche volta per la paura di imbattersi nelle cause per discriminazione, che, soprattutto negli Stati Uniti sono già costate milioni di dollari soprattutto alle aziende che operano nel mondo della finanza.
In alcuni casi si tratta di mero window dressing o pink washing – una spolverata di parole giuste e dichiarazioni forti per riposizionare il brand sul mercato. In qualche altro invece gli intenti sono più seri e lo spettro delle iniziative intraprese è molto vario: dalla realizzazione di indagini ad hoc alla definizione di piani di intervento, alle attività di sensibilizzazione, alla formazione, alla sperimentazione di interventi volti a trasformare i contesti di lavoro in ambienti inclusivi.
In tutti i casi, però, non sempre gli sforzi vanno nella giusta direzione e la sensazione di esclusione, se non proprio di discriminazione, di chi non appartiene ai gruppi maggioritari rimane un elemento forte all’interno dei contesti lavorativi delle imprese ma anche delle organizzazioni del terzo settore.
A ciò si aggiunga, anche da un punto di vista della ricerca accademica e degli esperti di management, una graduale e progressiva messa in discussione degli approcci metodologici e degli strumenti adottati, che si può leggere nel progressivo cambiamento delle parole chiave di riferimento.
Se qualche anno fa si parlava di diversity management – la gestione delle differenze nei contesti di lavoro – oggi si parla sempre di più di diversity e inclusion, dello sviluppo di un ambiente organizzativo e di un mindset (un atteggiamento individuale e collettivo) inclusivo, spostando il focus dalla segmentazione delle differenze allo sviluppo di un atteggiamento collettivo e di un ambiente organizzativo che consenta l’espressione di tali differenze, il dialogo e il confronto.
Sempre più quando si parla di diversity e inclusion si parla di unconscious bias, di pregiudizi e stereotipi inconsci, di come questi appartengano a ciascuno di noi perché sono parte integrante del nostro processo di apprendimento e di quanto sia importante imparare a riconoscere i propri e a gestirli. Eppure, mentre gli interventi formativi sugli unconscious bias sono in Italia sempre più popolari, un recente articolo sulla Harvard Business Review, partendo dall’analisi dello scarso impatto che gli investimenti in diversity e inclusion hanno avuto nel migliorare il tasso di diversity delle persone che lavorano nel mondo della finanza statunitense, cita alcuni studi di laboratorio che rivelerebbero che la formazione sui pregiudizi inconsci può avere un effetto opposto a quanto sperato: partecipare a una sessione di training sugli unconscious bias può portare al risultato di agevolare la consapevolezza della diffusione degli stereotipi, renderne legittima l’espressione e quindi rafforzarli invece di metterli in discussione.
Forzare le persone ad assumere comportamenti virtuosi, suggerendo nel dettaglio le modalità a cui attenersi, generebbe una reazione contraria tesa a rivendicare la propria autonomia. Le tecniche di controllo dei comportamenti, anche quando animate da nobili principi e da approcci sofisticati, comporterebbero sempre il rischio di alimentare reazioni contrarie.
Diventa così difficile capire cosa funziona e cosa non funziona e se da un lato fortunatamente resistono gli argomenti a favore del business case per diversity and inclusion – ricerche che dimostrano come team ad alto tasso di informational diversity siano più creativi e capaci di trovare soluzioni innovative – è innegabile che il contesto esterno alle imprese – a livello nazionale, ma anche europeo e mondiale – cominci a lanciare alle organizzazioni (imprese ma non solo imprese) segnali contradditori, con un’alternanza tra grandi spinte alla difesa dei diritti e all’innovazione nell’adozione di modelli inclusivi e clamorosi passi indietro verso il conservatorismo più retrogrado e chiuso.
È come se in un mondo a sempre più alto tasso di complessità prevalesse, quasi per contrappasso, la ricerca di chiavi di lettura semplici e immediate.
Eppure gli studi ci mostrano che l’adozione di soluzioni semplici e veloci, che non prevedano un intervento su più piani, non tengano in conto adeguati investimenti e, soprattutto, non imparino dalle esperienze e dagli studi di caso ormai numerosi degli ultimi anni rischiano di trasformarsi in interventi boomerang, in cui effetti di segmentazione e separazione dei vari gruppi all’interno del luogo di lavoro si traducono in una diffusa fatica verso qualsiasi trattazione del tema ‘diversity’ da parte dei gruppi dominanti e nella generazione di aspettative destinate a non trovare soddisfazione nei gruppi minoritari.
Nello stesso articolo della Harvard Business Review si legge che le tecniche di diversity e inclusion basate sul controllo tendono ad essere aggirate e per questo non producono i risultati attesi, quello che (sembra) funzionare meglio è coinvolgere i manager nella soluzione del problema ovvero farli diventare champions e promotori/trici di un progetto di inclusione, far sì che siano loro a incontrarsi e confrontarsi con persone che appartengano ai diversi gruppi e far sì che nell’organizzazione ci sia un sistema trasparente di responsabilità delle scelte di inclusione, che consenta progressivamente l’accesso alla leadership di persone non appartenenti ai gruppi dominanti e, soprattutto, l’espressione di nuovi stili di leadership.
Si tratta, quindi, di mettere in campo approcci più complessi, che non temano di confrontarsi con la complessità e il cambiamento, a partire dalle differenze di modelli mentali, di riferimenti culturali, di accesso e gestione delle informazioni, di linguaggio per comprendere e definire temi fondamentali – che sono le vere differenze di rilievo all’interno delle organizzazioni, differenze che devono trovare spazio per potersi esprimere.
Approcci, questi, che non possono essere improvvisati sulla base della sola sensibilità individuale: occorre acquisire competenze specifiche –che esistono e che molto possono prendere in prestito dalle esperienze pluriennali nel campo della promozione delle pari opportunità di genere, far tesoro delle esperienze, e anche dei fallimenti, che si sono susseguiti in questi anni. Occorre acquisire dimestichezza con strumenti di analisi dei bisogni, pianificazione e valutazione degli interventi che si vogliono attivare, attraverso momenti di confronto e una formazione adeguata.