RELAZIONE DI VITTORIA TOLA AL CONGRESSO NAZIONALE DELL’UDI TENUTOSI A ROMA IL 6-7-8-MAGGIO 2016
Fare un congresso non è cosa semplice. Non lo è in particolare per un’associazione di donne che lavorano in modo volontario e senza mezzi se non quelli che investiamo, in questa passione, per sostenere attività locali e nazionali e per poter parteciparvi. Per mancanza di fondi quest’anno abbiamo dovuto spostare un progetto importante: il Premio Immagini Amiche. Siamo però riuscite a garantire iniziative importanti come quelle per il settantesimo della Liberazione e della nascita dell’Udi. Anche il trasloco per la salvaguardia dell’Archivio Centrale ha avuto dei costi. Dopo anni di battaglie per ottenere una sede più congrua oggi abbiamo degli spazi adeguati. Ora abbiamo l’ambizione di arrivare alla digitalizzazione per renderlo fruibile a tutt*. Impresa non facile.
Vorrei ringraziare sentitamente tutte le donne che nelle realtà locali, nei gruppi dirigenti hanno permesso tutto questo. Un grazie particolare alle giovani che come Flavia, Giulia, Letizia, Valentina si impegnano nella sede nazionale.
L’Udi per una sua inguaribile cultura democratica ha l’urgenza di costruire un’agenda politica che parta dalla soggettività delle donne. Dobbiamo continuare ad affrontare le battaglie già in atto. Dobbiamo misurarci con nuove sfide. Sono questi tempi confusi che incidono sulla nostra libertà e condizionano il percorso di emancipazione di masse umane.
Abbiamo voluto iniziare questo nostro XVI congresso con tre “vecchie” ragazze del ’43. Marisa Ombra, Marisa Rodano e Lidia Menapace. Purtroppo Lidia che doveva arrivare ieri sera, per ragioni di salute aggravate dall’età, non è potuta partire ed essere con noi. Sono donne partigiane e madri costituenti dell’ Udi. Sono protagoniste della storia della Repubblica che hanno vissuto “dal di dentro” questi 70/90 anni. Le abbiamo volute con noi per riconoscere il nostro debito verso di loro e la loro coerenza, perché vogliamo porci domande sull’oggi con lo stesso coraggio che le ha contraddistinte in altri momenti.
Con loro vogliano riflettere sulla nostra cittadinanza e sulla conquista del diritto di voto delle donne. Sappiamo che, per affrontare le sfide terribili che abbiamo davanti, dobbiamo affondare e non distogliere lo sguardo da ciò che il presente ci costringe a vivere con grande preoccupazione.
Abbiamo di fronte quotidianamente le immagini di distruzione di intere città, l’annientamento e la reclusione di tante donne, uomini e bambini. Speranze e illusioni, che per decenni abbiamo creduto fossero per sempre, ci stanno sfuggendo. Un mondo sta morendo mentre uno sta nascendo, insieme a tante nuove possibilità. Non bisogna però dimenticare o sottovalutare le conseguenze di guerre, terrorismi, fondamentalismi, boom demografico e devastazioni ambientali, scelte economiche e politiche irresponsabili e inumane che condizionano intere popolazioni che ne diventano le vittime. Queste vittime sono anche le/i testimoni di una epoca, la nostra, che ci rende tutti e tutte responsabili se non decideremo di fare quanto è necessario per fermare questa barbarie.
Barbarie di cui anche l’Occidente e l’Europa sono responsabili. Questione impensabile fino a pochi anni fa. Impensabile che il continente dei diritti e delle costituzioni democratiche (dopo le tragedie del ‘900), dello stato sociale e delle speranze aperte dall’Unione europea potesse trovarsi a questo bivio. E, in condizioni che peggiorano ogni giorno.
Qualcuno sostiene che è necessario fermare i profughi e gli immigrati per salvare la democrazia dalle forze populiste, xenofobe e fasciste che stanno conquistando terreno anche elettorale. Ma si può combattere il male con i suoi stessi mezzi? Come si può continuare a chiudere le frontiere se non si fermano le guerre e lo sfruttamento del pianeta? Se non si aprono almeno corridoi umanitari? Se non si rispettano le Convenzioni internazionali solennemente firmate e su cui abbiamo dato lezioni al mondo? Se non si considera che vengono bombardati anche ospedali e campi profughi?
Non voglio ripetere quanto con dovizia di dati e particolari abbiamo già analizzato nell’Anteprima del congresso (i materiali sono disponibili) che ha rappresentato un momento prezioso di confronto tra noi e con altre donne. Abbiamo voluto realizzare l’obiettivo di un congresso aperto al confronto, alla valutazione serena di diversità politiche che sono un arricchimento per tutte. Abbiamo voluto superare quell’inessenzialità politica che spesso tutte lamentiamo. Inessenzialità politica che ci indigna perché noi mettiamo grande energia e passione nell’affrontare lotte con proposte precise contro sessismo e razzismo in tutte le sue forme e che si declinano con la violenza. Pensiamo al femminicidio e ai pregiudizi alimentati da stereotipi, da linguaggi e pubblicità sessiste. Pensiamo alla prostituzione e alla tratta, alla mancanza di lavoro e di prospettive per le/i giovani… Senza contare la continua messa in discussione dei principi e valori di autodeterminazione nella nostra vita e nelle nostra scelte sessuali e procreative. Su tutto questo non siamo riuscite ad ottenere risposte adeguate.
La nostra ambizione è, e rimane – se la vogliamo dire con la battuta fulminate del personaggio di Meryl Streep in “Suffragette” – non protestare ma: “Noi …. vogliamo fare la legge! ” in tutti i sensi.
Però, siamo costrette -tutti i giorni- a protestare nonostante tutte le nostre conquiste. Vediamo leggi –da noi volute – che da tempo vengono sempre più svuotate.
Lo vediamo con la legge 194, sull’ interruzione volontaria di gravidanza, sempre più inapplicata da coloro che la dovrebbero rispettare. Legge che abbiamo voluto come un’uscita dalla clandestinità, quella che faceva morire d’aborto le donne.
Una legge che riconosce la nostra autodeterminazione sulla gravidanza e sulle maternità non volute. Ma vediamo tante donne che continuamente si affannano perché essa venga applicata. E, per questa inadempienza, è la seconda volta che l’Italia è stata sanzionata dall’Europa.
Incredibile e inaccettabile la relazione del 4 maggio alla Camera della Ministra Lorenzin che dà la “sua interpretazione autentica” della 1egge. Parlando di maternità responsabile si dimentica: i danni delle Asl compiuti contro i consultori continuamente ridimensionati (certo non da noi), i fertility day senza informazione sessuale e/o educazione sentimentale (che noi preferiremmo chiamare e vedere come modifica profonda di programmi e formazione di tutta la scuola italiana), l’uso della pillola RU (corsa ad ostacoli anche contro la razionalizzazione economica tanto sbandierata nella spesa sanitaria), la pillola del giorno che, soprattutto per le minorenni, rappresenta una discriminazione rispetto alle loro coetanee europee.
Una maternità che quando si vorrebbe è resa impossibile. Mancanza di lavoro e di prospettive per le giovani generazioni. Taglio agli enti locali che impoveriscono il paese di asili nido e scuole per l’infanzia… Si potrebbe continuare ricordando che le donne italiane sono quelle che lavorano di meno, fanno meno figli e sono le mamme più vecchie d’Europa. Per senso di responsabilità! Appunto. E, anche perché hanno meno condivisione dei compiti familiari e di cura con i loro uomini. Potremmo parlare del congedo di paternità che vale due giorni. O delle nonne come servizio sociale gratuito. Ma lasciamo perdere! Altro che interpretazione vera della L. 194 che punta ad occultare i privilegi degli obiettori, più forti dei diritti delle donne! Nonostante sia una legge di mediazione, il principio dell’autodeterminazione fa della 194, con la Merlin, la legge più vessata e osteggiata della storia d’Italia da forze misogine e confessionali. Per non parlare di alcune recenti decisioni politiche – che sono insieme drammatiche e ridicole – come la sanzione di 10.000 euro sull’aborto clandestino, in un Paese le cui istituzioni non riescono, o non vogliono, controllare neanche le obiezioni totali, struttura per struttura, creando, come Stato, le condizioni di quella “clandestinità” che vogliono sanzionare. Potremmo anche parlare della decisione, nella legge di stabilità, di trasformare i pronto soccorsi in strutture “con i codici rosa” di “salvezza coatta” contro la volontà di donne sottoposte a violenza, quando le forze dell’ordine in troppi casi non intervengono neanche di fronte a una grave denuncia e il Ministero della salute non è compreso tra quelli che devono raccogliere i dati nel Piano nazionale contro la violenza. Mancanza di rispetto della verità, insipienza e pressapochismo come segnali di una crisi del rapporto cittadine/stato e di crisi della democrazia che si esprime anche, nel governo e nel parlamento “più rosa della storia”. Un parlamento che non riesce ad esprimere, non dico una politica mainstreaming, che sarebbe quella necessaria, – noi, quelle del “50 e 50 0vunque si decide”, non avevamo illusioni che la presenza numerica fosse di per sé rappresentativa delle politiche delle donne – ma almeno utile. Speravamo,come forze democratiche femminili e maschili, di riuscire ad arginare la cancellazione di scelte, certo non rivoluzionarie. come la Ministra delle P.O a 20 anni da Pechino o come l’applicazione della 194. o l’allargamento dei congedi parentali o il contenimento della violenza contro le donne o la calendarizzazione della legge sul cognome della madre (ferma in Senato). Non si è impedito neanche la destituzione di una eccellenza come Linda Laura Sabbadini all’Istat.
Per non parlare del dovere di creare lavoro per tutt*.
Il rilancio di una sfida più avanzata sulla autodeterminazione e sulla procreazione è necessaria: da troppo tempo siamo in una posizione difensiva e i margini sono sempre più stretti, come dimostrano le scelte del Ministero della Salute e, persino, l’aumento della mortalità per parto a fronte di una crescente denatalità, anche in ospedali eccellenti del Nord, e non solo nel Sud disastrato.
Non parliamo poi di quello che dovrebbe essere già stato modificato della legge 40 come prevede la Corte Costituzionale. Mentre in molte/i si esercitano sulla cosiddetta “Teoria del gender”, che non è altro, a ben vedere, che un tentativo reazionario di ripristinare la “naturalità” dei ruoli, non solo sessuali, ma anche sociali, tra donne e uomini, riproponendo discriminazioni antiche per le donne, chiamate con altri nomi. E questo mentre quello che noi chiamiamo frana o fine del welfare sembra tendere a ria-assoggettare alla finalità del liberismo e del capitalismo anarchico tutti i lavori della riproduzione sociale, riconsegnati alle donne senza riconoscerne, ancora una volta, il valore sociale ed economico, il benessere che producono, il valore che trasmettono, come ci ricorda R. Pesenti.
Per questo abbiamo lavorato a un Seminario nazionale su CorpoLavoro e continueremo a lavorare a una Piattaforma nazionale per una contrattazione di genere (ne parleranno altre, a cominciare da Laura Piretti).
Sono segnali, nel nostro piccolo mondo, che dimostrano come sia enorme la capacità di riposizionamento del comando maschile, anche se non vogliamo parlare di patriarcato, termine che è tornato al centro di tanti discorsi dopo esser passati da un ragionare sul post patriarcato alla crisi del patriarcato che, per molte, oggi si esprime in una sua restaurazione vendicativa.
E, tuttavia, la libertà delle donne è in cammino, anche se faticosamente, in tutti i continenti e le forme di restaurazione che vediamo dimostrano che un ordine storico, politico, culturale è stato messo in discussione e cerca di reagire. Malamente!
Tutto questo ci interpella come femministe, soprattutto in un momento storico come questo in cui, anche tra di noi, le differenze passano per molte strade e siamo divise da molte questioni, come ci dice Colonia o la maternità surrogata. Anche sul valore del lavoro, forse le posizioni non sono unanimi. La domanda è sul perché questo succeda, capirne le motivazioni e il senso.
Sulla maternità surrogata su cui discutiamo da tempo abbiamo deciso, come Udi, di non prendere parte all’allarme fittizio che si è creato in occasione della discussioni sulle unioni civili e di non anticipare risposte collettive prima di farci delle domande approfondite su un problema di grande complessità e su cui non ci convincono le motivazioni espresse finora. Crediamo che ci sia ancora molto da discutere e, per questo, proponiamo un appuntamento nazionale importante, a ottobre, nel quale fare un confronto di merito che sfugga al referendum tra riconoscimento dei desideri/diritti o soluzioni penali nazionali e internazionali. Non possiamo ignorare che la ricerca scientifica e tecnologica ha aperto nuovi scenari che, se portano miglioramenti in tanti ambiti della vita, creano anche nuove e preoccupanti dipendenze e pongono nuove domande politiche, giuridiche ed etiche. La procreazione medicalmente assistita o la gestazione per altre/i possono considerarsi scelte di libertà? ma per chi e con quali conseguenze, a partire dalla salute psicofisica, per ciascuno dei soggetti coinvolti? Capire bene l’oggi ci serve per costruire una bussola che ci aiuti a non restare prigioniere del meno peggio o del moderatismo compromissorio dei nostri privilegi occidentali o del potere della tecnica, serve per scandire alcune priorità di impegno e di lotta per obiettivi che riteniamo fondamentali per noi e per le donne. Per questo bisogna riannodare un nesso indispensabile tra politica e società che si è spezzato.
Del disordine della transizione che viviamo fa parte anche lo sfaldamento, per le politiche ideologiche e neoliberistiche, di quel patto democratico che aveva caratterizzato la ripresa dell’Europa post bellica per cui oggi siamo di fronte a precarizzazione, svalorizzazione del lavoro, dissoluzione del welfare, mancanza di futuro per le nuove generazioni. E così è diventato sempre più fragile il legame tra democrazia politica e democrazia sociale, tra diritti sociali e diritti civili in cui il pensiero e le pratiche delle donne e del femminismo si sono inserite con forza e in modo originale.
Il futuro lo immaginavamo contraddistinto ancor di più dal protagonismo delle donne. Ora lo vediamo invece segnato dalle dinamiche dello sfruttamento. La povertà torna a essere uno “stato di natura” anche in Occidente mentre siamo circondat* e immers* nella latenza della guerra e nell’esplosione di continui conflitti bellici. E’ emblematica la guerra per procura, che si è sviluppata in Siria, a partire dal 2011, e poi si è evoluta nel disastro attuale che non accenna a districarsi neanche per le gravi ripercussioni che ha sull’Europa. Questo si aggiunge a tutte le altre tragedie: dall’Iraq alla Libia, dall’ Afganistan alla Palestina, dalla Nigeria alla Somalia. Potrei continuare a lungo come sulle devastazioni materiali e sociali che producono la distruzione di comunità, le formazioni dei terroristi e gli eserciti regolari e gli stupri di massa, da cui non sono esenti neanche le forze di peacekeeping. Come incide tutto questo sulla battaglia delle donne in cammino in tutti i continenti? Una Battaglia che le forme dei conflitti in atto rendono più ardua.
Dall’ultimo Congresso abbiamo lavorato molto sulle nostre possibilità di essere, insieme alle altre, capaci di affrontare le sfide che avevamo di fronte continuando il nostro lavoro in atto da tempo (e ne troverete alcuni esempi nei materiali in cartella e su cui interverranno altre) che ci ha conquistato l’attenzione e la fiducia da parte di tante altre donne nel femminismo ma anche in tutto il variegato e articolato mondo dell’associazionismo delle donne. Un mondo che sconfina a volte nella frantumazione di troppe forze. Molte sono custodi gelose di un proprio ambito piuttosto che propense al lavoro comune, pur nelle differenze.
Non crediamo nell’unità purchessia e non facciamo appelli all’unità. Siamo anche noi determinate custodi della nostra storia ma non pensiamo che l’autoreferenzialità o l’afasia collettiva sia un valore nel movimento politico non solo per l’efficacia delle nostre lotte ma anche nei confronti di tante donne che vorrebbero partecipare e contare ma sempre di più sono messe ai margini. Sappiamo che, per fortuna, le forze in campo sono ancora tante come dimostrano anche le nuove aggregazioni che si stanno mobilitando come la Rete femminista No muri no Recinti sull’Europa che non vogliamo, ma dobbiamo sempre più lavorare insieme trasformando le difficoltà in occasioni positive.
E’ necessario attivare relazioni politiche con le tante forme di resistenza presenti nei territori in cui moltissime sono le donne come le donne di Taranto o della Terra dei fuochi, e provare ad uscire dalla frammentazione per costruire interlocuzione e pratiche politiche trasformative, capaci di tenere insieme solidarietà e reciprocità, cura per sé e cura per gli altri/e, amore e libertà come sostiene Marcodoppido. A cominciare dalle giovani e dalle immigrate.
L’abbiamo detto al XIV congresso e avevamo capito che questo era un punto nodale quando abbiamo cambiato nel 2003 il nostro acronimo in Unione delle donne in Italia. Perché le altre donne, che vengono da tutti gli angoli della terra e oggi sono in fuga, non solo per scelte economiche e povertà, ma in seguito a guerre e massacri, ci pongono davanti a un mondo che cambia in modo vertiginoso e ci obbliga a fare i conti con un sistema in crisi, un disordine mondiale deciso al di fuori di noi ma che condiziona le nostre scelte di vita quotidianamente.
Anche per chi come l’Udi è nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale, che ha reagito con l’emancipazione prima e con il pensiero femminista poi facendo della liberazione e libertà il senso e l’orizzonte del proprio esistere ed agire, questa è una situazione che non ci può trovare immobili, mute, rassegnate.
Cosa può rappresentare e fare oggi la nostra libertà, che nessuno ci ha regalato, a fronte della crescente mancanza di libertà e di diritti minimi essenziali alla vita e alla sopravvivenza per altre e altri?
Se nell’Anteprima ci siamo chieste se il femminismo possiede gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta avvenendo storicamente, riprendendo il pensiero di Judith Butler su globalizzazione e neoliberismo, rispondiamo che (e cito dal DWF, 2014 2-102, p. 15): “C’è un certo modo più ampio di pensare i diritti, la libertà e il pubblico che è emerso dalla teoria femminista che deve avere un ruolo nel discorso politico più generale”. Ce lo impone lo stato delle cose e ce lo impone un congresso che, se deve fare un bilancio del nostro lavoro in questi anni che sono stati molto intensi. Questo congresso deve anche indicare priorità politiche nel contesto dato, commisurate alle nostre forze, affrontando processi che non sono solo locali e nazionali come vediamo quotidianamente. Una esperienza che dura da tempo ma che negli ultimi mesi ha assunto una velocità e un’accelerazione sempre più preoccupante per l’Italia e per l’Europa.
Abbiamo visto come le politiche di austerità, adottate negli ultimi anni dall’Europa, abbiano inciso sulla vita di tanti e tante in modo devastante. Abbiamo visto cosa è accaduto a chi ha deciso di riprendersi la sua sovranità e come è difficile provare a riprendersi la propria vita, in una crisi che riguarda un intero modello di sviluppo che apre a domande inedite nella politica pubblica.
Questa crisi in stretta connessione con guerra e terrorismo, investe Europa con la tragedia dell’immigrazione che a molti sembra solo violazione di confini di Schenghen da parte di “clandestini che ci invadono” producendo insicurezza dei propri diritti e del piccolo benessere conquistato e paura del presente e del futuro. E su questo che viene seminato il razzismo a piene mani ricordando che ogni euro speso per loro viene sottratto ai cittadini europei, che i migranti sono costosi per lo stato, senza considerare che non sono certo loro a creare difficoltà sociali e una disoccupazione giovanile al 44%, in tante regioni del sud soprattutto per le ragazze, con una denatalità pari a zero e una disoccupazione che non risparmia le fasce più adulte e con i dati sulla corruzione che conosciamo.
Basterebbe analizzare l’abbandono delle famiglie tradizionali povere per capire fino in fondo quanto sia grande la dimensione ideologica della battaglia contro gli altri, i diversi, da parte di chi si erge a paladino della famiglia “tradizionale” e delle proprie tradizioni culturali e nazionali.
Saltati i paletti che garantivano l’equilibrio democratico si è verificata la sparizione del rapporto cittadini/stato, come rapporto di fiducia, e allo stato – inteso come ordine costituzionale – si è sostituito il Security State, che serve ad alimentare il panico come elemento fondante del discorso pubblico mentre i meccanismi della cittadinanza sono sempre più depotenziati come ha sottolineato E. Deiana all’Anteprima.
Assistiamo, nel contempo, a uno slittamento semantico che trasforma in altro il significato proprio di termini che ci sono cari per assumerne altri completamente diversi (basta pensare a parole come libertà, diritti umani, autodeterminazione, ‘riforme’ che finiscono per assumere quelli di smantellamento di tutto quello che aveva dato benessere e diritti per tutti a tutti/e).
Assistiamo a una insignificanza delle parole che ottenebra la nostra capacità critica. La confusione radica l’impressione di un’umanità lanciata a folle velocità verso il baratro perché troppo grande è la distanza tra quello che si vive e quello che si ascolta.
Le immagini del terrore invece di farci reagire ci lasciano muti e impotenti. Dimentichiamo in fretta anche se, nell’immediato, diamo corpo ai nostri fantasmi incuranti del fatto che siano veri oppure no. Se guardiamo anche solo ciò che è accaduto a Colonia, alle tragedie che ci rimandano ogni giorno i telegiornali con un’Europa insieme impotente e allo sbando, siamo immerse in una sorta di frastuono molteplice in cui non esistono più persone reali e in cui diventa difficile orientarsi.
Tutto sembra concorre a portarci nella direzione che altri vogliono per noi, per costruire politiche strumentali, come hanno fatto – in nostro nome – i difensori delle donne e dello scontro di civiltà a Colonia. Intenti a difendere l’inviolabilità del corpo femminile come se loro fossero esenti dalla violenza e innocenti nei nostri confronti e verso le donne migranti e trafficate. Miravano solo a colpire qualunque politica di accoglienza dei profughi, donne comprese. (Ma per questo rimando ai Fantasmi di Colonia di Ida Dominjanni che abbiamo convintamente condiviso).
Sulla violenza contro le donne che, per qualcuno viene considerata sempre più parte dello scontro di civiltà tra noi e il mondo islamico,( sulle cui diversità è necessario riflettere e distinguere) voglio solo ricordare l’enorme lavoro che abbiamo dovuto fare noi, in questi decenni, per farla emergere dalla cronaca nera o dai delitti passionali, per mostrarla come una fenomenologia strutturale dei rapporti di potere degli uomini nelle nostra società.
Negli ultimi anni (dalla Staffetta a Stopfemminicidio, dalla Convenzione No More al Seminario di Napoli sulla Fenomenologia del femminicidio) abbiamo proposto ciò che sancisce solennemente la Convenzione di Istanbul: come sia dovere degli Stati affrontare la violenza maschile e familiare con politiche preventive, di aiuto alle donne, di formazione di una cultura diversa e di norme penali certe.
Vorrei ricordare e invitare tutte a partecipare martedi’ 10 maggio alle h.10 in Cassazione al processo all’acidificatore/assassino di Lucia Annibali, questa grande donna che continua a lottare duramente con grande coraggio, che ha avuto le donne dell’ Udi di Pesaro vicine in tutto questo tempo da quando è stata colpita ed è sopravvissuta. Oggi è una testimone contro la violenza, un esempio per tutte. Martedi’ con Lucia vorremmo e dovremmo essere in tante.
Parlavo degli obiettivi di Istanbul che sono obiettivi ancora lontani nonostante, (grazie alle nostre pressioni), il Parlamento abbia votato all’unanimità la Convenzione di Istanbul (anche se io sono convinta che una parte non l’ha capita e un’altra non l’ha neanche letta). Nonostante questo siamo continuamente alle prese con una politica istituzionale, che potremmo gentilmente definire del gambero, che non solo non affronta seriamente il problema ma ci porta a sospettare che la violenza maschile non sia solo sottovalutata ma serva e sia funzionale all’ordine dominante, nonostante tutte le dichiarazioni e i discorsi politici vadano in altra direzione anzi affermino un’altra volontà che non si concretizza quasi mai in modo sistemico. Che non viene governata in modo adeguato!
Vi risparmierò la storia di questi anni che pure sarebbe interessante e istruttiva, i passi avanti e le regressioni immediate delle istituzioni e mass media, la comparsa e la continua scomparsa del termine, la nuova consapevolezza di tante donne, l’uso che ne fanno i media, come descrivono e analizzano i femminicidi, dimenticano le sopravvissute, o si trasformano in guardoni sullo stupro familiare (la tragedia di Caivano).
I commentatori che affrontano tutto in termine di mostri, orchi, orrori, riproponendo anche la figura e il ruolo del demonio (Storie Vere – mercoledi’4 maggio). Storie di miseria sociale e simbolica, contesto degradato e camorristico analizzato spesso in modo superficiale.
Potrei parlare del caso di Roma con la donna “sparata” in un bar da un marito che dichiarava ai quattro venti la sua volontà di uccidere gli immigranti che si fossero avvicinati alla sua famiglia che lui avrebbe difeso dagli stranieri (però a sparare alla moglie ci ha pensato lui!).
E le sopravvissute? Queste donne sono considerate casi umani da dimenticare perché affrontarli sarebbe costoso. Intanto nei tribunali per ogni assassino viene giocata la carta del raptus, della incapacità di intendere e di volere, del delitto passionale o del patteggiamento.
Tutto questo contribuisce a far crescere una opinione pubblica inclina a credere che disordine e caos siano opera di “mostri” lontani, diversi da noi. Quello che importa è credersi innocenti.
E poi: stupri, stalking, molestie e ricatti sessuali, anche nei posti di lavoro. Uno stillicidio quotidiano. Non si può però risolvere il problema stigmatizzandolo sempre come opera di “mostri”. Il problema è più complesso.
In grande questo accade con l’Isis/Daesh che produce e incarna l’istinto di chi sottomette la condizione umana all’ancestrale senso di onnipotenza di un potere assoluto maschile. Un’immagine primitiva del patriarcato che usa la molla della violenza e gode del potere che esprime. L’efferatezza che i signori della morte riservano oggi ai bambini e alle bambine imbracciati come fucili, ai giovani e alle giovani donne pronte o costrette ad esplodere nelle città di tutto il mondo come vuoti a perdere, sono la misura della strumentalizzazione dell’esistenza umana in molti continenti o della loro condizione di sub-umanità.
Il potere che porta tanti uomini alla violenza (in un progetto politico totalitario e fondamentalista) esercita un richiamo verso giovani e anche ragazze a cui la strada della violenza e della sottomissione sembra essere l’unica scelta di libertà e di identità. Salvo non sapere come fare per uscirne. La suggestione del dominio attraversa anche il mondo delle donne. Pensiamo a quelle dell’Isis che da rclutatrici e controllore di schiavizzate, oggi si pongono come combattenti per Daesh. O di altre donne che in diverse situazioni in Europa si pongono come leader delle forze più xenofobe e razziste.
Dobbiamo pertanto ricordare che il soggetto politico del cambiamento non sono solo le donne, ma è il femminismo come pensiero e pratica per leggere il mondo e trasformarlo. Per questo le donne Yazide e le curde che combattono anche con le armi l’Isis, da vittime si sono trasformate in testimoni e protagoniste. Opponendosi alla dottrina fondamentalista dell’Isis, sono diventate importanti e significative per tutto il mondo. Sono donne che combattono per sé, per il loro popolo e per noi.
La differenza e lo scompiglio, che da sempre induciamo nel potere costituito, quando si esprimono politicamente, diventano la nostra risorsa. Ciò spesso ci penalizzata facendoci pagare prezzi pesanti.
Questa risorsa può essere anche catturata e usata a fini patriarcali. Nella nostra società il mercato fa della differenza un’idea da catturare e omologare mirando a svuotarla del suo portato originario femminista, facendone un uso meramente strumentale. Come dice Anna Simone, un uso immediatamente utile all’antropologia neoliberista che trasforma la radicalità politica in un mero strumento comunicativo, di marketing. Così nel neoliberismo il patriarcato moderno tende a trasformarsi in “paternalismo” ovvero in una modalità del maschile che anziché escludere le donne dalla sfera pubblica, se serve, tende ad includerle a condizione che esse rispondano ai dettami del potere senza cambiarli mai all’origine.
L’inclusione differenziale ed il paternalismo contemporaneo hanno, infatti, dispositivi precisi di inclusione di parte delle donne nella sfera pubblica, così come nell’ambito dell’economia delle imprese e del lavoro più in generale escludendone tante altre.
Quindi la sopravvivenza del patriarcato è garantita anche attraverso la cooptazione di quote di donne a proprio sostegno, donne che operano una precisa scelta politica che riguarda la loro collocazione nel mondo.
Donne che condividono un’ immaginario fondato sulla gerarchia economica e sociale, quell’immaginario che permea le istituzioni più importanti così come le forme del tempo quotidiano, l’organizzazione della vita, la fruizione delle risorse e soprattutto la gerarchia che sostiene e detiene la facoltà di attribuzione del valore a tutte le esistenze (Pesenti).Basta pensare alle molte donne ai vertici dell’economia e della finanza a livello europeo e mondiale e a come il loro potere viene esercitato nella smemoratezza delle altre e senza interlocuzione con loro o con un approccio di genere.
Tornando sulla politica europea di chiusura su migranti e rifugiati, che nel mondo hanno raggiunto i 60 milioni nel 2015 (superando la cifra massima dopo la seconda guerra mondiale di 50 milioni di sfollati), Wendy Brown si è interrogata sul perché dell’esistenza dei muri, nonostante la loro inefficacia pratica, muri comprensibili quindi solo sul piano dell’investimento emotivo e della difesa della “nostra innocenza”, del desiderio di fermare una sub umanità diversa, soprattutto di maschi violenti che rubano benessere e lavoro.
Questo ci conduce all’invisibilità delle donne immigrate considerate sempre a traino degli uomini o sottomesse, badanti o trafficate per sfruttamento sessuale e lavorativo. Vittime! Ma senza diritti fondamentali nonostante leggi e convenzioni. Soprattutto oggi che il fenomeno si aggrava e muta. Sono circa 214 milioni i migranti nel mondo, con un’incidenza delle donne pari al 49,6%. La scelta di migrare viene decisa proprio dalle donne per bisogno di libertà oltre che per necessità, sono loro che salgono sui barconi, stanno in campi profughi, sopportano violenze e disagi inenarrabili anche incinte e sostengono l’impatto con un’altra cultura nella crescita dei figli, rivendicano i loro diritti di cittadinanza. Sono loro a “fondare le basi per una vita affettiva in terra straniera, a dare principio alla stabilizzazione dei flussi migratori, a lavorare mettendo a frutto le loro competenze, a mantenere e potenziare quella dimensione familiare che trasforma in direzione positiva i percorsi sociali dei singoli migranti.
Sono soggetti ai margini, ma capaci di esercitare mediazioni tra ambiti diversi e a costruire reti tra loro e con noi che prefigurano un’Europa plurale, più giusta dove si può convivere in pace come ricorda Francesca Koch e tante donne migranti ormai italiane come Pilar Saravia. Questa è la strada che dobbiamo intraprendere per dirla come Valentina Sonzini nell’Anteprima. Creare dunque alleanze, riconoscere le genealogie, ribadire il nostro esserci, avere il coraggio di ricostruire quotidianamente la nostra identità (in un percorso di rinascenza), porci domande non ovvie né scontate, vivere la politica come un campo di battaglia dove conta esserci e agire: questi sono gli strumenti che il femminismo ha ancora dalla sua per leggere il mutare dei tempi. Possiamo vivere una vita giusta in un mondo ingiusto” Fare una politica giusta per cambiare un mondo ingiusto come direi io. Perché se non si guarda all’altro/a, se non si costruisce un senso di comunità, si diventa parte di quel sistema che vogliamo cambiare.
C’è bisogno quindi di parole di donne e non vanno dimenticate le parole delle madri fisiche, politiche e simboliche, un’eredità da continuare perché lo sguardo femminile può creare uno spazio di riflessione adeguato al presente. Decidere insieme dove resistere, contrastare, contrattaccare un potere spesso invisibile o imprendibile.
Non so se ce la faremo, ma penso che noi abbiamo il dovere, e mi rivolgo a tutte noi, il dovere storico di aprire il dibattito su questi temi che aiuti il passaggio di una eredità politica di grande valore a quante più donne possibile. Soprattutto alle giovani donne! Native e migranti. Cittadine del mondo!
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