Paola Cavallari, Doranna Lupi e Grazia Villa sono le curatrici del libro “Religioni e prostituzione. Le voci delle donne” pubblicato da Vanda edizioni nel marzo 2024 e che sarà presentato a Napoli il 7 ottobre. Nato dal laboratorio su prostituzione e pornografia dell’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIDV), il libro indaga con ottica interreligiosa il modo in cui le religioni hanno trattato la prostituzione. Con la prefazione di Doranna Lupi e Grazia Villa, e l’introduzione di Paola Cavallari, il libro contiene diversi saggi in cui studiose di varie discipline e “fedi” analizzano il rapporto tra le religioni e la prostituzione: Sarah Kaminski (Ebraismo), Rosanna Maryam Sirignano (Islam), Maria Angela Falà (Buddhismo), Svamini Shuddhananda Ghiri (Induismo), Lidia Maggi (Chiese evangeliche) e Paola Cavallari (Cattolicesimo).

Il quadro che ne emerge, semplificando, è quello di una sostanziale acquiescenza delle religioni rispetto al fenomeno della prostituzione. E questa acquiescenza deriva dal fatto che le religioni storiche sono radicate su modelli patriarcali di relazione tra i sessi. Insomma, entrambe, le religioni e la prostituzione, si fondano sul patriarcato. Nei testi sacri, e soprattutto nelle politiche concrete delle Chiese, accanto alla condanna morale, spesso accompagnata da silenzio e complicità, si adottano atteggiamenti diversi sulla prostituzione, dalla compassionevole cura delle vittime alla distinzione tra vari tipi di prostituzione, alcuni tollerati, altri condannati, ma sempre si scorge un fondamento sessista che relega le donne o al ruolo di cura e garanzia di sopravvivenza della specie (le madri di famiglia) oppure al ruolo di prostitute, dalla società messe a disposizione degli uomini. Il desiderio degli uomini non solo “viene prima” ma “esiste”, mentre sappiamo che proprio il desiderio sessuale delle donne è stato per secoli occultato, negato, perseguitato.

Nel libro non mancano le testimonianze di coloro che prostitute lo sono state e che sono “sopravvissute”: l’uso di questo termine non è casuale, indica che è ben presente a tutte (non solo alle curatrici e autrici dei saggi) il carico di umiliazione, dolore, “dissociazione” personale che la prostituzione fa gravare su chi la pratica ma anche su chi (gli uomini) ne fruisce.

Fatto sta, però, che la prostituzione è anche un fenomeno sociale; che nel femminismo è ancora aperta la discussione se sia giusto che la Legge intervenga per arginare il fenomeno (nella società patriarcale non è previsto che la prostituzione sia eliminata). L’idea che le donne siano le prime vittime della prostituzione (vittime da proteggere) contrasta in modo stridente con un principio del femminismo moderno che ha fatto della libertà di usare o, meglio, di disporre, del proprio corpo un cardine altrettanto irrinunciabile.

È con questo groviglio, concettuale e politico, che ci si confronta oggi, soprattutto nelle società che, come la nostra, hanno raggiunto (seppure con ostacoli che permangono) la parità tra uomini e donne. In fondo, la contraddizione è la stessa che attraversa il dibattito pro o contro la “gestazione per altri”: dove comincia, e soprattutto dove si ferma, se si deve limitare, la libertà femminile di disporre di sé?

Proprio perché nel dibattito pubblico ci sono opinioni, narrazioni e proposte diverse, anche divergenti, è importante ascoltare ciò che dicono studiose che, seppure parlando da una dichiarata visione di fede religiosa attraversata dal femminismo – come le donne dell’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne – intervengono con una ricerca che non si affida a comode scorciatoie ideologiche ma riflettono e esprimono la propria posizione.

Alle tre curatrici del libro ho posto tre domande.


Grazia Villa, che è un’avvocata, e che si occupa di diritti, ha raccontato che la prima, in assoluto, class action fu quella promossa dalle “comfort women” che l’esercito giapponese, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, reclutava e sfruttava come vere e proprie schiave sessuali. L’azione collettiva delle donne riuscì a cambiare il modo in cui queste donne erano percepite, da “corrotte” a “vittime” di veri e propri crimini sessuali. Come interviene la legge – questa è la domanda – sulla prostituzione? La messa fuori legge delle “case chiuse” attuata dalla legge Merlin nel dopoguerra, le legislazioni più recenti che ad esempio prevedono di multare gli uomini che usano le prostitute, si muovono tutte secondo la medesima prospettiva, quella che la prostituzione è un male da estirpare e che l’unico modo di estirparlo sia vietarla. Possono esistere leggi radicate, piuttosto che in una condanna morale e/o penale, in una cultura dei diritti?

Grazia Villa:

Indagare sul nesso “legge e prostituzione” significa riaprire l’annosa questione del rapporto tra il diritto, i diritti e il corpo delle donne (e non solo). Per questo anche nel lavoro di approfondimento del gruppo prostituzione dell’OIVD, che ha preceduto la pubblicazione del nostro libro Religioni e prostituzione, dopo un escursus storico sui differenti approcci culturali del fenomeno prostitutivo, abbiamo esaminato i modelli legislativi attualmente in vigore nei diversi Stati, le proposte di riforma, le visioni sottostanti, l’apporto del femminismo giuridico, il disvelamento del diritto sessuato al maschile, i limiti e l’efficacia delle norme rispetto al radicamento del sistema prostituente.

Il dilagare della tratta e la recrudescenza del fenomeno prostituivo, connessa al traffico illecito internazionale del mercimonio dei corpi, purtroppo, raramente conduce ad affrontare le ragioni dell’aumento della domanda e la connessione tra aumento della domanda e aumento dell’offerta, né si vogliono scoprire le radici di questo “figlio illegittimo” di una cultura patriarcale. Sempre più spesso tutto si risolve in un dibattito sull’efficacia delle leggi attualmente in vigore nei diversi Stati e sulla necessità di giungere a nuove regolamentazioni della prostituzione, ispirandosi ai diversi sistemi vigenti nel mondo.

Le proposte di una presunta soluzione sono tante: si va dalla inevitabilità di una piena liberalizzazione della prostituzione senza alcuna limitazione giuridica al ritorno alla vecchia “prostituzione di Stato” legata al sistema delle “case chiuse”, dalla necessità di introdurre le tutele giuridiche per “sex workers”, distinguendo tra prostituzione libera e prostituzione coatta, alla regolamentazione dei centri erotici e delle aree dedicate, nonché alla apertura dei bordelli, senza controllo di Stato, dalle esigenze di maggior decoro delle nostre città, le stesse che non vogliono vedere, per strade e giardini, migranti, senza fissa dimora, artisti e saltimbanchi, fino a giungere al cosiddetto modello nordico che prevede la punibilità del mero acquisto di prestazioni sessuali.

Il dibattito legislativo pertanto si dipana, quindi, tra l’esigenza: a) di abolire il fenomeno prostituivo colpendolo alla radice; b) di regolamentarlo, posta la sua ineludibilità; c) di abolirne la regolamentazione, posta la sua inefficacia rispetto alla riduzione del fenomeno o alla sua auspicata eliminazione.

L’oscillare tra queste differenti posizioni ha caratterizzato oltre due secoli di normative e regolamenti e con loro oltre due secoli di lotte delle donne e dei movimenti femministi abolizionisti sfociati in Italia con l’approvazione della Legge Il 20 febbraio 1958 n. 75 dal titolo significativo “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”, più nota come Legge Merlin dal nome di Angelina Merlin, detta Lina.

La senatrice dopo aver raccolto migliaia di testimonianze di donne prostituite, ricevuto migliaia di richieste di aiuto in lettere a lei indirizzate, dopo aver visitato centinaia di case chiuse dislocate in tutto il paese dal più piccolo municipio alle grandi città italiane, dopo dieci lunghi anni di lotte politiche, boicottata anche dai suoi stessi compagni di partito,  porta a termine la sua “battaglia” parlamentare, contro un sistema poliziesco e uno Stato che lucrava guadagni sulla prostituzione attraverso la riscossione di tasse e contributi.

In pochi articoli avviene una vera e propria rivoluzione, prevedendo la legge il divieto dell’esercizio delle case di prostituzione e la loro chiusura entro sei mesi, nonché dei quartieri e qualsiasi altro luogo chiuso, dove si esercita la prostituzione, dichiarati locali di meretricio, cui si affianca, fin d’allora, la necessità di investire in un percorso di sostegno per le donne fuoriuscite dallo sfruttamento prostituivo. Si introduce poi un sistema sanzionatorio diretto a punire una serie di condotte illecite, tutte connesse all’esercizio della prostituzione: Sfruttamento, Favoreggiamento, Reclutamento, Induzione, Adescamento, Libertinaggio. (art. 3)

La legge fu molto osteggiata non solo in sede di approvazione, ma anche negli anni successivi, sia con molteplici tentativi di riforma o di abrogazione, sia con una sua mancata applicazione, spesso determinata da alcuni orientamenti interpretativi della giurisprudenza italiana, tendenti a svuotarne il significato, a ritenerla inadeguata e fallimentare o, nella migliore interpretazione, tacciata di paternalismo giuridico e di tendenza moraleggiante.

La gran parte dei progetti e delle proposte di legge depositate nel Parlamento italiano nelle ultime tre legislature si ispirano al modello regolamentarista o neo regolamentarista/decriminalizzante, richiamando in alcuni casi quasi alla lettera le disposizioni di polizia dei regimi antecedenti la legge Merlin, compresa la possibilità di riapertura delle case di prostituzione, con un sorprendente salto e ritorno al passato di ben oltre 150anni!

Esistono, tuttavia, alcune proposte di legge, già depositate, altre in via di elaborazione, che non prevedono alcuna abrogazione della Legge Merlin, bensì un suo rafforzamento sia sotto il profilo penale, con l’introduzione di un’altra condotta di reato nell’art. 3, quella dell’acquisto di prestazioni sessuali, ricalcando il “modello nordico” di punibilità del “cliente”; sia sotto il profilo del miglioramento dei percorsi di uscita dalla prostituzione. Il tutto supportato da investimenti in campagne di sensibilizzazione culturale, educativa e d’istruzione, nel tentativo di sradicare il fenomeno e di giungere all’obiettivo finale di abolire non solo i regolamenti, ma anche la prostituzione stessa! (una disamina delle proposte è contenuta nel libro Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione”, VandA.epublishing,2019).

L’orizzonte interpretativo delle norme in oggetto ha avuto una svolta decisiva con la pronuncia delle Corte Costituzionale depositata il 7 giugno 2019, n. 141, dibattuta all’udienza del 5 marzo 2019, nella quale sono intervenute diverse associazioni femministe. La storica decisione, con la comparazione tra sistemi vigenti, inseriti per la prima volta in una sentenza della Corte Costituzionale, fa riferimento esplicito al modello nordico e alla sua “sostenibilità” costituzionale. Viene negata fermamente e, si auspica, definitivamente l’esistenza di un diritto costituzionalmente garantito a prostituirsi. Con una lunga e argomentata motivazione, si respinge la richiesta di incostituzionalità della Legge Merlin, che, viceversa, risulta pienamente compatibile con i principi costituzionali, “ravvisando nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.

Certamente come viene esplicitato nella domanda che mi viene posta la prostituzione viene considerata in se stessa “un male” o quantomeno intorno ad essa si genera “un male”, così come si evince già nel Preambolo della Convenzione ONU New York del 21 marzo 1950 che accosta “la prostituzione al male che l’accompagna” e ancor nella definizione della Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 febbraio 2014 della prostituzione come “una forma di violenza(…) un’inequivocabile e terribile violazione della dignità umana”!

Il riconoscere o meno nella prostituzione una forma di violenza che conduce alla necessità di evitarla, eliminarla, ridurla, punirla, diventa allora il vero discrimine di un approccio giuridico che fuoriesce da una valutazione etica, inserendo il tema nella richiamata “cultura dei diritti”.

Se accettiamo la definizione della prostituzione come “stupro a pagamento” sempre e in ogni caso, senza distinzione tra prostituzione libera e prostituzione coatta inevitabilmente non si può che giungere a provvedimenti coercitivi, ovviamente non nei confronti delle donne o degli uomini che subiscono questa forma di violenza, bensì nei confronti di chi sostiene, organizza, utilizza il sistema prostituente.

Cambia la prospettiva e cambiano le proposte di legge se, viceversa, la prostituzione diventa esecrabile solo quando non è frutto di una libera scelta, ma è “coatta”, cioè frutto di violenza o coercizione; se la violenza e lo stupro sembrano essere riconducibili solo alla gestione criminale della prostituzione e non ricollegabili alla prostituzione in sé, all’acquisto di prestazioni sessuali che, invece, trovano una loro legittimazione nei luoghi comuni e negli stereotipi più consolidati: la prostituzione non si può eliminare, fa parte della natura umana, è il mestiere più vecchio del mondo!

Il commercio del sesso legato alla tratta e allo sfruttamento viene condannato e di conseguenza punito, in quanto connesso alla delinquenza e alla criminalità organizzata, e non già come violazione dei diritti umani delle donne e della loro dignità.

Nell’attuale dibattito non solo in Italia, ma anche nei paesi dove la prostituzione è regolamentata ad esempio in Germania ,o in Francia dove si è assunto il modello nordico si sono radicalizzate due posizioni: da una parte, infatti, aumenta la condanna unanime, l’invocazione di pesanti penalizzazioni, l’investimento di risorse per combattere la tratta, il traffico sessuale, la cosiddetta prostituzione coatta, azioni sostenute, anche dalla lobby dei prostitutori, in quanto la tratta inquinerebbe il mercato regolamentato o libero della prostituzione (come ha documentato Julie Bindel nel libro Il mito Pretty Woman .Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione,Morellini VandA.ePublishing, 2019)

Dall’altra parte, in nome della libera scelta di disporre del proprio corpo e di immetterlo nel mercato libero della prostituzione, a volte rivendicandone l’utilizzo come strumento di potere sugli uomini e mezzo per un lecito e debito arricchimento, si ricercano nuove forme di regolamentazione che garantiscano l’esercizio di questo potere e di questa “libertà” in sicurezza e protezione sociale.

I fronti sono contrapposti, così come le visioni sottostanti, gli immaginari, le declinazioni dei vari femminismi o sedicenti tali. Quello che per il nostro osservatorio risulta difficilmente condivisibile, dopo tutto il nostro percorso almeno fino ad oggi, è il passaggio dalla condivisa e audace scelta di Lina Merlin di non condannare la prostituta, alle felicitazioni per chi sa stare nel mercato del corpo traendo profitto per sé.

Da qui la nostra lotta, in Rete con gruppi e movimenti abolizionisti, per la difesa della legge Merlin e il consolidamento della scelta di passare dall’assunto “la prostituzione riguarda anche me, anche noi” all’auspicio che si fa impegno, fino allo smascheramento delle complicità delle religioni patriarcali, diventando ferma presa di posizione:  “la fine della prostituzione riguarda anche me, anche noi”.


Doranna Lupi, che fa parte delle Comunità Cristiane di Base, impegnata attivamentenello smascheramento delle radici patriarcali, misogine, androcentriche della Chiesa, ha messo in rilievo, soprattutto nel laboratorio su prostituzione e pornografia promosso dall’Osservatorio contro la violenza sulle donne, lo stretto legame che c’è tra prostituzione, violenza, controllo del corpo femminile. Come è emerso questo legame dalla diretta testimonianza delle donne che sono “sopravvissute” alla prostituzione? Definirle “sopravvissute” serve a mettere in risalto il loro essere state “vittime” di un sistema. Non si rischia così di occultare il lato della responsabilità individuale che, in fondo, è una conquista per le donne?

Doranna Lupi:

Purtroppo, la prostituzione resta un dispositivo patriarcale difficile da scalfire. Il sessismo si è imposto, in ogni grande tradizione religiosa e con esso la necessità di controllo sui corpi delle donne e sulla loro sessualità. Qui sta il nesso tra religioni e patriarcato, due sistemi che si rafforzano a vicenda poiché promuovono modelli di relazione di dominio tra i sessi, radicandole, nel trascendente, attraverso la teologia e le interpretazioni dei testi sacri pensati e scritti solo da uomini.
Questo fenomeno ha contribuito a rendere la prostituzione socialmente accettabile. La teologia femminista ha offerto nuove interpretazioni dei testi religiosi, evidenziando come la religione possa e debba essere un veicolo di liberazione piuttosto che di oppressione. La fede può e deve sostenere i percorsi di liberazione e la libertà delle donne.
Rachel Moran, sopravvissuta alla prostituzione, racconta che, durante le notti trascorse in strada, sotto il cielo stellato, sentiva una profonda solitudine, come se l’universo non avesse un posto per lei. Questa sensazione di vuoto le provocava una profonda sofferenza spirituale. La prostituzione, come lei stessa descrive in Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione rappresenta una realtà in cui la violenza è una costante. Nelle ultime pagine del suo libro Moran rivela che ciò che più fortemente l’ha spinta a liberarsi da quella condizione è stata proprio una profonda bramosia spirituale: il desiderio di ritrovare pace tra sé e sé.
Noi sappiamo che in ogni religione esistono parole per dire sia il grido per il disagio di quella condizione sia la lode per il valore della propria esistenza (Lidia Maggi). Nelle fonti di ogni tradizione religiosa c’è una forza eversiva che parla d’amore, di giustizia e che può spingere al primo passo verso un cammino di liberazione.
La definizione sopravvissute è stata usata dalle donne uscite dal mercato del sesso che, dal 2012, hanno iniziato a fondare movimenti internazionali come SPACE (Survivors of prostitution-abuse calling for enlightenment ) per denunciare la violenza subita e risvegliare la coscienza pubblica affinché la prostituzione venga riconosciuta a livello politico come sfruttamento sessuale violento e, in risposta, venga criminalizzata la domanda di prostituzione.
Queste donne non sono solo vittime, ma soggetti politici che chiedono l’abolizione del sistema che le ha sfruttate. Riconoscere la loro identità come “sopravvissute” è fondamentale, poiché rappresenta non solo la loro resilienza, ma anche la volontà di trasformare il dolore in una lotta per la giustizia sociale. Questo atto di denuncia diventa un potente strumento politico, mirato a smascherare e combattere l’industria del sesso come una forma di sfruttamento sistemico. La loro voce diventa una chiamata all’azione, spingendo la società a riconsiderare il modo in cui comprende e affronta la prostituzione e la violenza di genere.
Ingeborg Kraus, psicotraumatologa di fama internazionale, da anni impegnata a fianco delle donne prostituite, sottolinea che il trauma vissuto da queste donne spesso equivale a un trauma complesso che deriva da esperienze di violenza ripetute nel tempo, portando a conseguenze devastanti che si manifestano attraverso la dissociazione, la spersonalizzazione, la depressione. Queste condizioni influiscono sulla loro percezione di sé come individui di valore, rendendo difficile il processo di guarigione.
Ascoltare le storie delle sopravvissute, riconoscere e accettare la loro esperienza è fondamentale. Solo credendo in loro possiamo iniziare a smantellare le strutture oppressive dell’industria del sesso e della violenza di genere. Noi abbiamo creduto alle loro parole e condividiamo le loro azioni di lotta.


Paola Cavallari, che è stata tra le fondatrici dell’OIDV, che ha anche presieduto fino all’anno scorso, è tra le curatrici del libro nel quale ha firmato sia l’introduzione che l’ultimo saggio dedicato al modo in cui il cattolicesimo ha trattato la prostituzione. Da filosofa, indaga il nesso che c’è tra religione, prostituzione, patriarcato. Seppure con diverse sfumature, le religioni, tutte, finiscono per tollerare/giustificare la prostituzione. In che senso la prostituzione è, o è stata, funzionale al modo in cui nella nostra civiltà si è strutturata la sessualità maschile? Perché, secondo lei, è “un inganno”, dannoso per le donne, parlare di autodeterminazione femminile nella scelta di prostituirsi?

Paola Cavallari:

Vorrei iniziare con lo smantellare un pregiudizio che, come OIVD, ci riguarda: le donne che nutrono valori spirituali e/o fanno riferimento a orizzonti di fede non apparterrebbero al femminismo, che per definizione contrasta i credi religiosi, responsabili di immane subalternità delle donne. È un pregiudizio che nuoce a tutte quante: si può detestare le istituzioni religiose, ritenerle a buon viso colpevoli di aver avallato la inferiorizzazione femminile, ma il paradigma religioso va scalzato in modo critico e non dogmatico.

Le comunità religiose sono state e sono tutte funzionali al logocentrismo, e non solo funzionali…. Ne  hanno forse  costituito  le basi fondamentali. Ma questo  non ci esime dal condividere le parole di Luce Irigaray, la quale osserva come  il regime di separazione tra stato e chiesa può illudere  si essere estranei alla influenza della cultura religiosa, ma  “non per questo tuttavia esso annulla l’importanza dell’influsso della religione sulla cultura… Il passaggio a un’epoca nuova non può avvenire attraverso una semplice negazione di ciò che esiste”;  tendiamo  a “considerare i miti realtà secondarie, mentre sono una delle espressioni principali di ciò che organizza la  società in una  data epoca”[1]. L ’attenzione alla fenomenologia religiosa dunque è decisiva per scardinare mentalità che affondano le loro radici in mitologemi religiosi. 

Si poteva pensare che la religione (mi soffermo sulla religione cattolica, che meglio conosco)   condannasse senza se e senza ma la prostituzione come peccato della carne, come tante donne cattoliche credono (l’ho verificato nei miei incontri). Si poteva ipotizzare che sotto sotto -ma non tanto – la giustificasse, come lei Patrizia scrive. Ma occorreva decostruire le sottili astuzie si cui si sorvolava sulla implicazione degli uomini, e  indagare sui capovolgimenti per cui tale peccatuccio– per l’uomo- era in fondo tributario della malizia femminile. La chiesa si edifica su un ordine gerarchico maschile, dopo tutto.  Argomentazioni, concetti, pronunciamenti si  possono  riassumere in un enunciato:  la donna è la Causa Prima del cedimento del maschio. Il copione è sempre quello che sta alla base della interpretazione del peccato d’origine; Eva è la colpevole, Adamo è – solo- stato vittima delle seduzioni di Eva.

La prostituita era oggetto d’attenzione non malevola se e solo se si pentiva ed espiava. L’exemplum per eccellenza era Maria Maddalena: un modello del tutto inventato dall’immaginario maschile, poiché è filologicamente scorretto attribuire alla Apostola degli apostoli una vita di prostituta redenta, come è stato documentato.

Vengo alla prima domanda. 

Nel mio saggio parto dalle ricerche della psicanalista francese Françoise Héritier. Nell’economia politica e simbolica, che si è instaurata, con una svolta in una fase lontana della storia, si è imposto un assetto sociale bastato su quello che lei chiama “valenza differenziale tra i sessi e dominio maschile”:  gli uomini governano secondo un regime patriarcale, amministrando la cosa più importante per la loro sopravvivenza: la riproduzione, ovvero l’appropriarsi delle donne, lo strumento per attuarla. Tale “bene” era ovviamente oggetto di contesa.

Tale accaparramento del bene è stato un fenomeno costante, che, a seconda dei contesti, si dispiega in duplice forma,  una  più  “civilizzata”, l’altra più grezza. La prima è lo scambio “istituzionale” delle donne gestito dagli uomini, l’altra è l’appropriazione fondata o su accordi dal volto meno “civilizzato” o su vere o proprie razzie (vedi ratto delle sabine).

La prima è un patto realizzato dagli uomini fra loro per scambiarsi corpi di loro figlie e di loro sorelle di cui, secondo il contratto sessuale istauratosi, sono proprietari; ciò permette loro di stabilire legami sociali duraturi fra i clan. Le donne ricopriranno i ruoli subordinati dell’economia domestica e genereranno prole.

La seconda forma di appropriazione riguarda quel corpo di donna su cui non si esercita possesso specifico da parte di qualche maschio, per cui quel corpo viene interpretato come “a diposizione”, appartiene potenzialmente a ogni uomo, per soddisfarne la pulsione sessuale. 

Se questo è vero, allora si conferma ancora una volta la giustezza con cui il femminismo negli anni 70 aveva individuato nella sessualità il punto cruciale in cui si annodano o si diramano tutte le direttici e le contraddizioni che investono le dinamiche fra donne e uomini, perché proprio qui convergono due elementi costituitivi dell’essere umano 1. procreazione; 2. pulsione sessuale, connessa al piacere nel soddisfacimento della pulsione.

Come sappiamo da Carla Lonzi, l’uomo fa coincidere costitutivamente coito e pulsione/ soddisfacimento sessuale; la donna no (o non necessariamente).  Ma questo argomento fa parte del desiderio sessuale femminile e dell’autodeterminazione, quindi passo alla seconda domanda.

Se il desiderio sessuale maschile è stato rappresentato senza inibizioni, anzi, istituendo sistemi  culturali che  ostentano la potenza virile (non solo nella pornografia, ma nella sua messa in scena in ambiti alti della letteratura: romanzi etc., con convinzione condivisa che la pulsione maschile può godere di libertà nella sua espressione),  così non è stato per le donne, lo sappiamo molto bene. Anzi è avvenuto esattamente l’opposto. La colonizzazione delle donne le ha indotte a fungere da specchio per l’identità maschile, con la nota conseguenza che, se il Fallo è il pieno per eccellenza, la Vulva sarebbe il buco, il vuoto (per usare la terminologia di Luce Irigaray).  La donna non esiste -se non per rispecchiare il “Soggetto”.  Argomentazioni sintetiche le mie, ovviamente.    

 Negli anni ‘70   si è gridato nelle vie e nelle piazze che il corpo è mio e lo gestisco io: era l’inizio di una controcultura – come si diceva allora- ma non era un contro, piuttosto era un  per:  per fare “tabula rasa”  della pervasiva  civiltà della colonizzazione femminile,   per uscire  dallo specchio, per uscire dal buco, e disidentificarsi  coraggiosamente dai modelli introiettati, modelli dove il desiderio femminile era non solo l’innominato, ma anche l’innominabile.

Per molte, come la sottoscritta, questa era l’apparizione di quel ‘soggetto impensato’, che era finalmente divenuto consapevole di non sapere ed avanzava i primi passi nell’ agire il proprio desiderio.

L’autodeterminazione si colloca in questo punctum specifico. Io tutta intera desidero, penso, agisco in un Io tutto intero. Il corpo è mio e lo gestisco io è un atto di sovversione magistrale : non sono più quell’essere  che è stato  tenuto in uno stato di minorità da una società a misura dell’uomo/maschio, ora mi guardo da  tutori e guide interessate. Ora, per quanto riguarda la mia sfera, responsabilmente e consapevolmente,  agisco. Libera! Consapevole dell’onere della libertà, che è tale solo se agita nella consapevolezza della interdipendenza in cui siamo immersi, in nome del perseguimento di una civiltà più umana, per donne e uomini.

C’è un solco enorme tra questa concezione della autodeterminazione e quella che viene invocata da sostenitori e sostenitrici della regolamentazione del sex work.  Tra le due c’è “uno scambio della concezione della libertà come affermazione positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato”. [2]

La discussione ora mi porta davanti tutte le contraddizioni che questo atto di proclamazione e assunzione di sovrana cittadinanza comporta.   Obiezione principale: ‘Non  sono forse libera di vendere il mio corpo a chiunque io voglia?’

Risposte alla obiezione

  1.  La libertà enunciata nella frase viene immediatamente contraddetta da un atto (un contratto, per quanto illecito)  per cui non sarò più padrona del mio corpo, perché esso sarà a disposizione del potere di chi mi ha comprato. Ciò è vero perfino nelle dinamiche di quella perversione in cui il suo potere mi ingiunge di essere sadica con lui.
  2. “Negli anni Settanta, quelle parole erano antitetiche a una visione che istituisce una barra di separazione tra mente e corpo: l’utero/corpo non era vissuto come strumento di cui si poteva disporre, anzi, ci si opponeva radicalmente alle logiche biopolitiche strumentali, prefigurando piuttosto una riappropriazione di sé, dei propri organi, del proprio organismo, nell’orizzonte di un insieme inscindibile di mente e corpo, nell’orizzonte di una ritrovata ricomposizione.

Il sex-work si fonda, al contrario, su una disunione con il corpo, su un’ideologia di individualismo proprietario acquisitivo, da cui discende il disporre del proprio corpo, interpretato come ‘bene economico a disposizione’, strumento inscritto nell’orbita della merce: la dissociazione tra mente e corpo è evidente già in queste premesse di fondo”…“Comprendersi incarnati/e è assai più difficile che inneggiare alla libertà: una libertà che non fa i conti con il principio di realtà, che non accetta il limite, la relazione e l’esistenza dell’altra/o è libertà che poggia sulla forza”.[3]

  • La  libertà qui enunciata è in sostanza libertà di amputarsi, perché è amputazione quel gesto per cui mi ‘offro’(dissociandomi , e qui torniamo al punto precedente) perché mi perforino- a volte con un accanimento inaudito- nelle parti intime. Giustamente la legge italiana vieta la vendita di organi del proprio corpo.
  • La libertà qui enunciata è libertà di colludere e avvallare la rappresentazione pubblica del corpo femminile come un corpo ‘violabile’ ‘perforabile’ (in un’ apoteosi del topos del fallo come arma) votato alla passività. Altro che autodeterminazione. Pessima comunicazione per adolescenti e ragazze a cui dovremmo trasmettere il principio della ‘inviolabilità del corpo.
  • La libertà enunciata va nella direzione di un divenire complici ed avvallare ciò che sta sotto alla domanda maschile di comprare sesso…. ciò che sta sotto è una questione gigantesca, ma qui voglio ricordare solo che l’uomo che ha queste frequentazioni evita il più possibile relazioni ‘vere’ con le donne, persegue nel suo individualismo autoreferenziale. Si tratta, ripeto, di una libertà che non fa i conti con il principio di realtà, con la relazionalità costitutiva dell’umano, ma si regge sul potere, sessista e del denaro.

[1] Luce Irigaray,  IO, TU, NOI. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, 1992, p. 21

[2] Francesca Izzo, Vietato a sinistra, dieci interventi femministi su temi scomodi , Lit edizioni, 2024. p.10

[3] Paola Cavallari,  L’azione pubblica dell’Osservatorio in merito al sistema prostituente, in Religioni e  prostituzione, le voci delle donne,  Introduzione. Vanda, 2024,  p. 49