Renata Russo Drago: lo sguardo sapiente sulla Sicilia del XIX secolo
Due saggi socio-antropologici di Renata Russo Drago, dedicati alle donne e all’infanzia, frutto di lungo scavo nelle biblioteche e negli Archivi di Stato, tracciano un profilo inedito sulle leggi e i procedimenti processuali della Sicilia sud orientale in un arco temporale che copre, nel primo caso, i quattro decenni antecedenti lo sbarco dei Mille a Marsala (11 maggio 1860) e, nel secondo, dal ‘500 al Novecento.
Entrambi editi da Lombardi, i due saggi sono “prime fonti” che travalicano la dimensione isolana per aprirsi ad una riflessione generale sulle violenze nella relazione tra i sessi e tra le generazioni. Uno sguardo lucido e documentato sul ruolo assegnato alle donne e all’infanzia, sulla loro “presenza assente” dalla narrazione storica ufficiale.
Nel mese di Novembre, che conta, il 25, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Onu, sono due letture di particolare interesse ambientate in un contesto prevalentemente rurale, nella punta più bassa di una Sicilia distinta in tre valli o intendenze dagli arabo-normanni, salite a sette con il Regno delle due Sicilie, ma che per alcuni aspetti processuali delle istruttorie, delle perizie, dei referti e dei confronti, mostra caratteri quasi moderni.
Tra violenza e onore. Le donne nei processi penali del periodo borbonico (1819-1859), pubblica la ricerca sul fondo “Gran Corte Criminale” dell’Archivio di Stato di Siracusa. Una microstoria intessuta di subalternità, disvalore, sopportazione oltre ogni limite ma anche del protagonismo di chi, nata e cresciuta in un contesto che ammette e giustifica le violenza, le trasmette e a sua volta l’infligge.
Peculiare è il significato che l’epoca e il Codice davano alla parola “violenza” esemplificata nei nove capitoli dedicati ai processi per «stupro, adulterio, infanticidio, parto cesareo, sospetto di aborto procurato, percosse seguite da morte, uxoricidio, veneficio, matrimonio clandestino.»
«Una discesa agli Inferi, in un mondo privo di luce, dove prevalgono la lotta per la sopravvivenza, l’amore per la ‘roba’, intesa sempre nel senso verghiano, la brutalità, la cieca libidine», dichiara l’Autrice in «pagine di verità che inducono a riflettere sulle incancellabili responsabilità storiche di un sistema sociale di primordiale ancestralità» (Corrado Piccione, prefazione).
Pagine che «impressionano» per l’ampia e dettagliata documentazione; la capacità di cogliere, oltre il tempo, il costume e il linguaggio, la sostanza discriminatoria e gerarchica delle violenze, la sofferenza ma anche la complicità delle donne vissute in «miserevoli condizioni» tali da risultare «spaventosamente, incredibilmente disumane».
In un mondo che dimentica e vuol in fretta dimenticare «la donna schiava, seviziata, violentata, senza tutela, senza assistenza di alcun genere, simbolo di una società senza dignità e senza onore» (Piccione), l’Autrice parla di «un senso esasperato dell’onore unito ad una grande povertà materiale, a ignoranza, al ferreo controllo della voce pubblica» strumento anch’esso di controllo ed oppressione; comunica «l’impressione che questa gente viva in un mondo a parte, chiuso e dominato dalla violenza e da un culto tutto particolare dell’onore – di idolatria dell’onore parla Borgese – insensibile a stimoli esteri ed a motivazioni ideali e politiche, che pure non mancano nella prima metà dell’Ottocento».
Nel contesto, gli interventi del magistrato giudiziario risultano «sbiaditi, ritardati, di esasperante lentezza, tali da lasciar sfuggire la pregnanza di prove immediate e contestuali ai fatti delittuosi» (Piccione) e le indagini, siano attente e minuziose oppure distratte e affrettate, risentono «dei convincimenti personali degli inquirenti, ma anche l’influenza dell’ambiente socio-economico in cui essi vivono e operano».
Non c’è da stupirsi se un villico – per il ricercatore Salomone Marino – ritiene la morte del suo asino più grave di quella che ha inflitta alla moglie e alla figlia, né che altro contadino, Salvatore Tiralongo, di Avola, già uxoricida, sevizi e uccida la figlia Francesca, l’unica rimastagli accanto, accusata di avergli rubato della farina.
Era di pubblico dominio che Tiralongo fosse «un uomo per natura fiero, che non concepì né amore di sposo né affezione paterna, un mostro uccisore della moglie e di altri figli» intendendo, per fiero «non un elogiativo ma, come riporta il vocabolario del Mortillaro, uomo di natura simile a fiera, efferato, bestiale, crudele, terribile». A chiusura del libro l’Autrice infatti pubblica un breve ma illuminante glossario e alcune note bibliografiche.
I figli dello Stato. L’infanzia abbandonata nella provincia di Siracusa dal secolo XVI al fascismo esamina gli aspetti della storia sociale riguardante i gittatelli, proietti, bastardelli com’erano chiamati chi, per vari motivi, spesso inerenti il disonore e/o le precarie strategie di sopravvivenza familiare, cadeva sotto l’infamante dicitura N. N., superata solo in tempi recenti.
Tale infanzia era all’ultimo posto della scala sociale e, ultime fra gli ultimi, le bambine e il testo ne documenta ampiamente la reale situazione, anche in questo caso l’Autrice non distogliendo lo sguardo da ciò che un diverso approccio all’onore, alla moralità, ai costumi avrebbe evitato.
La ruota a Siracusa era installata nell’ospedale delle donne, intitolato a S. Lucia e a S. Caterina (patrona dei gettatelli), sito in Ortigia e definito da Gargallo «miserabile». All’infanzia abbandonata era assegnata, «nel 1543, la terza parte della gabella del pane, la quale esisteva già al tempo della Camera Reginale» e che apprendiamo essere condiviso, quel terzo, con i Gesuiti (in città dal 1554). «Nel 1592, durante una delle ricorrenti crisi annonarie per la mancanza di frumento, a seguito di moti popolari, il Senato abolì la gabella su pane, però in tal modo i gettatelli si morevano di fame.»
Il numero di abbandoni cresce nel primo decennio del ‘600 e compaiono le norrizzi (balie) e aumentano le assegnazioni, mentre nel 1633 compare il sacerdote don Matteo Maiorca, esattore del Monte di Pietà, incaricato di pagare 6 onze al mese le balie.
Una delle caratteristiche siracusane è che mentre altrove si trovano segni di riconoscimento sull’infanzia abbandonata, nella speranza, spesso vana, di riprendersela, «in Sicilia e in particolare a Siracusa non si trovano questi segni, piuttosto le polize (biglietti) di battesimo.»
Agli inizi dell’Ottocento, «la situazione economica a Siracusa non mostra alcun segno di miglioramento rispetto al secolo precedente, anzi, oltre alla solita difficoltà nella riscossione delle gabelle, si susseguono prolungati periodi di siccità che rovinano i raccolti dell’uva e delle olive, e molte terre rimangono incolte.»
S’incrementa l’abbandono dell’infanzia e la sua mortalità che supera la percentuale del 50%, complici anche le epidemie come quella grande di vaiolo (1801).
L’Autrice, sempre seguendo il doppio binario socio-antropologico, rivisita la storia siracusana sotto le varie occupazioni e Regni e anche in questo testo la casista, la notazione, la bibliografia sono ricchissime: norme e tradizioni del baliatico; gestori pubblici e privati delle risorse destinate; ingresso o allontanamento dell’abbandonato/a nella società che sempre li tiene ai margini creando sacche di mortalità, malattia e delinquenza. L’interesse delle famiglie nobili è caritativo, cioè copre situazioni ritenute sempre emergenziali anziché sistemiche e non ne sradica le radici, tuttavia elenca nomi prestigiosi di dame beneficenti e fondatrici o mantenitrici d’Istituti appositi, come l’Ospizio delle proiette settenarie di Catania, in cui «le infelici derelitte ragazze…sin’oggi vittime innocenti di malcostume…s’impegnino in manifatture indigene» in cui ricevono rudimenti d’istruzione e catechesi.»
Nel seguire le vicende umane e amministrative, l’Autrice narra l’Unità, le vicissitudini e i cambiamenti che si sono riflessi anche nell’ambito in esame e raggiunge, nell’ultimo capitolo, il Fascismo con il Regolamento speciale e organico sull’assistenza agli illegittimi e agli esposti all’abbandono nella provincia di Siracusa (8 agosto 1929) che prevede la creazione di un grande brefotrofio (aperto nel 1933), alla cui assistenza deve provvedere l’OMNI.
Non in ultimo, nelle Conclusioni, una riflessione sullo stato odierno delle forme dirette e indirette d’abbandono e l’auspicio che «la soluzione più umana e più giusta sarebbe, ancora una volta, quella già caldeggiata in passato, di aiutare le madri a poter vivere con i loro bambini, senza troppe preoccupazioni.»
Renata Russo Drago, genovese, residente a Siracusa dove ha insegnato Italiano e Storia negli Istituti Superiori, scrive su riviste specializzate, collabora con l’Archivio Storico della Società Siracusana di Storia Patria ed è socia della Federazione Italiana Laureate e Diplomate Istituti Superiori (sezione Fildis-Teocrito). In occasione del Settantennio della Repubblica e del suffragio femminile ha tenuto conferenze ed è intervenuta nelle celebrazioni pubbliche.