Dieci anni fa usciva un libro con la prefazione della storica Anna Bravo”Essere donne nei lager”

Le donne deportate furono molte per ragioni politiche, etniche, religiose, patirono le condizioni peggiori: la loro fisicità fu violata con gli stupri, la schiavitù sessuale e gli esperimenti medici. Alcune perirono, altre sopravvissero portando con sé i danni fisici, spesso irreversibili e permanenti, con il muto dolore dell’ingiusta vergogna.

 

Dalle pagine di Holocaustencylopedia

Vittime della persecuzione e dello sterminio nazisti furono sia gli uomini che le donne di etnia ebraica. Tuttavia, le donne – sia ebree che non-ebree – furono spesso soggette ad una persecuzione eccezionalmente brutale da parte del regime. L’ideologia nazista prese di mira anche le donne Rom (Zingare), quelle di nazionalità polacca e quelle che avevano difetti fisici o mentali e che vivevano negli istituti.

Interi campi, così come speciali aree all’interno di altri campi di concentramento, furono destinati specificatamente alle donne. Nel maggio del 1939, i Nazisti aprirono il più grande campo di concentramento esclusivamente femminile, quello di Ravensbrück, dove più di 100.000 donne vi furono incarcerate tra la sua apertura e il momento in cui le truppe sovietiche lo liberarono, nel 1945. Un campo femminile fu costituito anche ad Auschwitz-Birkenau nel 1942 (conosciuto anche come Auschwitz II), per incarcerare principalmente le donne; tra le prime ad esservi rinchiuse furono proprio prigioniere provenienti da Ravensbrück. Analogamente, una zona femminile venne creata a Bergen-Belsen nel 1944, dove le SS trasferirono migliaia di prigioniere ebree provenienti da Ravensbrück e Auschwitz.

Né le donne né i bambini, ebrei come non-ebrei, vennero risparmiati dalle uccisioni di massa condotte dai Nazisti e dai loro collaboratori. L’ideologia nazista sosteneva la necessità di eliminare tutti gli Ebrei, senza differenza di età o di genere. Le SS tedesche, insieme alle autorità di polizia, si occuparono di mettere in pratica quella politica, chiamata in codice “Soluzione Finale”, fucilando in massa uomini e donne in centinaia di località dell’Unione Sovietica occupata. Durante le deportazioni, le donne in stato di gravidanza e le madri di bambini piccoli venivano generalmente catalogate come “inabili al lavoro” e venivano perciò trasferite nei campi di sterminio, dove gli addetti alla selezione le inserivano quasi sempre nei gruppi di prigionieri destinati a morire subito alle camere a gas.

Le donne ebree ortodosse accompagnate dai bambini erano particolarmente vulnerabili, siccome vestivano abiti tradizionali che le rendevano facilmente individuabili, anche durante le crudeli violenze dei pogrom. Inoltre, il gran numero di bambini che generalmente caratterizzava quelle famiglie ortodosse, rese le loro donne uno degli obiettivi principali dell’ideologia nazista.

Donne non appartenenti alla popolazione ebraica erano però altrettanto vulnerabili: i Nazisti condussero infatti operazioni di assassinio di massa di donne Rom anche nel campo di concentramento di Auschwitz; uccisero donne disabili nel corso delle operazioni denominate T-4 ed “Eutanasia”; infine, tra il 1943 e il 1944, in molti villaggi dell’Unione Sovietica, massacrarono donne e uomini considerati appartenenti a unità partigiane.

Nei ghetti, così come nei campi di concentramento, i Nazisti selezionavano le donne per inviarle a lavori forzati che spesso ne causavano la morte. Inoltre, i medici e ricercatori nazisti spesso usarono donne ebree e Rom per esperimenti sulla sterilizzazione e per altre pratiche disumane di ricerca, contrarie a qualunque etica. Sia nei campi che nei ghetti, le donne erano particolarmente vulnerabili e soggette spesso sia a pestaggi che a stupri. Le donne ebree in gravidanza cercavano di nascondere il loro stato per non essere costrette ad abortire. Anche le donne deportate dalla Polonia e dall’Unione Sovietica per essere impiegate nei lavori forzati per il Reich, venivano spesso picchiate e violentate, o forzate a prestazioni sessuali in cambio di cibo o altri generi di conforto. La gravidanza fu l’ovvia conseguenza per molte donne polacche, sovietiche e yugoslave inviate ai lavori forzati e costrette a relazioni sessuali con i Tedeschi. Se i cosiddetti “esperti della razza” determinavano che il bambino non potesse essere “germanizzato”, le donne venivano generalmente obbligate ad abortire, o mandate a partorire in ospedali improvvisati, dove le condizioni avrebbero garantito la morte dei nascituri. Altre volte, invece, venivano semplicemente rispedite nelle regioni d’origine, senza cibo né assistenza medica.

Molte donne incarcerate nei campi di concentramento crearono gruppi di mutua assistenza che permettevano loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, di cibo e di vestiario. Spesso le donne appartenenti a questi gruppi provenivano dalla stessa città o dalla stessa provincia, avevano lo stesso livello di istruzione o condividevano legami familiari. Infine, altre donne furono in grado di salvarsi perché le SS le trasferirono nei reparti destinati al rammendo degli abiti, nelle cucine, nelle lavanderie o nei servizi di pulizia.

Le donne ebbero anche un ruolo importante in numerose operazioni della Resistenza, specialmente quelle appartenenti ai movimenti giovanili socialisti, comunisti e sionisti. In Polonia, le donne vennero impiegate come corrieri per portare informazioni nei ghetti; molte altre scapparono nei boschi della Polonia orientale e dell’Unione Sovietica, dove si unirono alle unità partigiane. Un ruolo importante assunsero anche molte appartenenti alla Resistenza francese (e ebraico-francese): Sophie Scholl, studentessa all’Università di Monaco di Baviera e membro dell’unità della Resistenza chiamata “Rosa Bianca”, venne arrestata e fucilata nel 1943 per aver distribuito volantini contro il Nazismo.

Alcune donne, come Haika Grosman, di Bialistok, furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza nei campi di concentramento. Ad Auschwitz, cinque donne assegnate al reparto di Vistola per la lavorazione del metallo – Ella Gartner, Regina Safir, Estera Wajsblum, Roza Robota e, forse, Fejga Segal – fornirono la polvere da sparo con la quale membri di un’Unità Speciale Ebraica fecero saltare in aria una camera a gas, uccidendo molte guardie delle SS, nel corso della rivolta dell’ottobre 1944.

Numerose donne furono anche attive nelle operazioni che vennero organizzate nell’Europa occupata per mettere in salvo gli Ebrei. Tra di loro ci furono la paracadutista ebrea Hannah Szenes e l’attivista sionista Gisi Fleischmann. Hannah Szenes fu paracadutata in Ungheria nel 1944, mentre Gisi Fleischmann, leader del Gruppo d’Azione (Pracovna Skupina) facente capo al Consiglio Ebraico di Bratislava, tentò di fermare le deportazioni degli Ebrei dalla Slovacchia.

Milioni di donne furono perseguitate e uccise durante l’Olocausto. Tuttavia, alla fine non fu tanto la loro appartenenza al genere femminile a farne dei bersagli, quanto il loro credo politico o religioso, oppure il posto da loro occupato nella gerarchia razzista teorizzata dal Nazismo.