Rifugiati: la grande messa in scena di una crisi sempre più grave. Importante è non scegliere il conflitto che degrada
La cosiddetta crisi dei rifugiati non è certo la partita più complessa che l’Italia si trovi a gestire in questi anni. Non certo più complessa di quella del lavoro, per dirne una. Eppure è la questione che, anche in ragione dello scollamento tra la realtà e il modo in cui la raccontiamo, tra la realtà e gli strumenti che mettiamo in campo per farvi fronte, rischia di assestare i colpi più pesanti alla fragile tenuta sociale dei nostri territori, soprattutto dei comuni di media e piccola grandezza.
Prepariamoci al peggio. A meno che non cambi in fretta qualcosa, ci aspetta un periodo di grande tensione. L’irrazionalità delle politiche di accoglienza sta arrivando a un livello tale che il punto di rottura potrebbe essere dietro l’angolo. Non è difficile immaginarsi per l’immediato futuro episodi di violenza, alienazione, imbarbarimento delle relazioni sempre più frequenti. Episodi come quello del giovane gambiano che a Venezia si è suicidato buttandosi nelle acque del Canal Grande davanti a centinaia di turisti, in parte attoniti, in parte impegnati a filmare la scena col telefonino (vicenda la cui gravità è stata palesemente censurata dai media italiani, forse anche per evitare la reazione dei connazionali del ragazzo); o come il breve sequestro degli operatori della cooperativa che gestisce il centro di accoglienza di Cona da parte di un gruppo di profughi dopo la morte di una giovane ivoriana, avvenuta all’inizio dell’anno negli squallidi bagni chimici del campo.
A pensarci bene, è un vero miracolo se in quella struttura, come in decine di altri centri di prima accoglienza di dimensioni anche più ridotte, le tensioni a cui sono sottoposte le persone ospitate non siano ancora sfociate in atti di violenza più espliciti di quelli che abbiamo visto sinora. A essere alienante non è tanto, se non in casi limite, la condizione materiale di vita imposta alle persone in accoglienza, quanto quella bolla innaturale di attesa – l’attesa della convocazione della commissione, l’attesa del permesso, l’attesa del rinnovo, l’attesa dell’appuntamento in questura, l’attesa del pocket money, l’attesa del colloquio con l’educatrice… – che costruiamo intorno a loro, destinata a durare uno o due anni, completamente svuotata di relazioni normali, di occasioni autentiche di incontro, di conflitti “necessari”. Una grande messa in scena in cui tutti, assistiti e assistenti, hanno un copione preciso da recitare, al termine del quale, al prezzo di un enorme spreco di intelligenza e umanità, non si profila alcuna parvenza di integrazione, bensì, nella maggior parte dei casi, marginalità, esclusione, disadattamento, sfruttamento e, in misura crescente, irregolarità.
Come siamo arrivati sin qui?
Se dovessimo tracciare una rapida sintesi delle politiche di accoglienza in Italia, potremmo dire che fino al 2005, data l’entità del fenomeno, il problema praticamente non sussiste. Non che prima di quella data non ci siano persone che chiedono protezione all’Italia. Negli anni 2000, ad eccezione della triste parentesi dei respingimenti in Libia, arrivano flussi di 15/20mila richiedenti asilo all’anno (a fronte dei 70-100mila che, nello stesso periodo, arrivano in Francia o in Germania), ma nella maggioranza dei casi, non essendovi costrette, queste persone non rimangono nel nostro paese.
In una seconda fase, che va indicativamente dal 2005 al 2011, da un lato si chiude il meccanismo di transito informale verso i paesi del nord Europa per l’entrata in vigore degli accordi di Dublino e del meccanismo delle impronte digitali, dall’altro l’Italia recepisce alcune direttive europee che la obbligano a garantire un’accoglienza, sarebbe a dire vitto e alloggio, durante il periodo della valutazione della domanda d’asilo. È in questa fase che inizia a prendere forma quel ginepraio di sistemi emergenziali che da allora vediamo all’opera sotto varie sigle – Cidi, Cara, Mare Nostrum, Cas, Hot Spot, Hub, eccetera.
L’unico sistema “strutturato” per l’accoglienza è il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che i comuni, su base volontaria, possono attivare in accordo con il Ministero dell’interno e delle prefetture. Ma rimane, almeno fino al 2013, una soluzione residuale perché lo stato italiano, come gran parte degli stati europei, quando si è trattato di decidere come gestire l’accoglienza obbligatoria, ha scelto la forma dei centri collettivi. Successivamente al 2013 invece, a fronte di una disponibilità dello stato a organizzare l’accoglienza in modo diffuso, sono gli enti locali a dimostrarsi poco propensi ad aderirvi.
Una terza fase è quella va dal 2011 al 2014. L’incendio si propaga. Prima il nord Africa (Tunisia, Egitto, Libia) e poi il Medioriente (Siria). Mentre gli altri focolai, Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa, Congo, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, sono tutt’altro che spenti. Sul piano dell’asilo politico l’Italia vive la stagione della cosiddetta Emergenza Nord Africa. 25mila giovani tunisini prima, 40 mila sbarchi dalla Libia poi, per un totale di 65mila profughi: uno stadio di calcio. Un numero risibile di arrivi diventa un’emergenza totale.
Complice il fatto che i grandi centri governativi sono presto riempiti e che lo Sprar offre una disponibilità limitata di posti, è in questi anni che anche i piccoli comuni iniziano a sentire parlare di “profughi”. La Protezione civile prima, le prefetture dopo il 2104, cominciano a prendere accordi diretti con alberghi, pensioni e altre strutture ricettive, senza concordare progetti di integrazione che coinvolgano anche i territori. Le prime conflittualità nascono qui.
Sul piano giuridico è a questo punto che avviene uno degli snodi più importanti, che condizionerà l’assetto dell’accoglienza negli anni a venire. Mentre ai “tunisini” arrivati prima di una certa data (il 5 aprile 2011) viene concesso per decreto ministeriale e senza passare dalle commissioni territoriali un permesso temporaneo per motivi umanitari, tutti gli altri arrivati dopo quella data dalla Libia, ma per lo più di provenienza subsahariana (Nigeria, Mali, Senegal, Gambia, Etiopia, Somalia, Eritrea, Ciad…), vengono costretti a presentare domanda di asilo.
È a partire da questo momento che l’iter lunghissimo e pieno di intoppi della richiesta d’asilo e dei paralleli programmi d’accoglienza diventano la prassi attraverso cui gestire i confini e i migranti che tentano di varcarli. Dall’ora e fino all’estate dell’anno scorso, questa è l’unica forma di immigrazione per così dire regolare in Italia. Si riducono moltissimo i dinieghi, non ci sono più decreti flussi, non ci sono (come non ci sono mai stati) modi di regolarizzare le persone che trovano un lavoro e mettono radici. L’immigrazione è via mare: alla domanda di asilo le commissioni rispondono nella maggior parte dei casi con i motivi umanitari.
Oggi
Nel corso del 2014 cambia tutto di nuovo. I processi di disintegrazione sociale e statuale di regioni sempre più estese del pianeta portano il numero degli sfollati a quota 50milioni, lo stesso numero di profughi che c’era alla fine della seconda guerra mondiale; in un solo anno e mezzo aumenteranno di altri 15milioni. È la guerra mondiale a pezzetti di cui parla il Papa. È chiaro che una cornice di questo tipo ha delle conseguenze anche per l’Italia. Ma se in Turchia ci sono due milioni e mezzo di profughi, un milione e mezzo in Pakistan e in Libano, un milione in Iran, 700mila in Kenya, oltre 500mila in Etiopia, i 180mila arrivati in Italia lo scorso anno non dovrebbero impensierirci troppo. Non più uno, ma tre stadi di calcio. Un numero che consentirebbe di gestire in maniera ragionevole ed efficace l’accoglienza.
Nel mezzo però, gli attentati di Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino, i fili spinati lungo i confini dell’Europa dell’est, la sospensione di Schengen, gli accordi con la Turchia e, in queste settimane, quelli molto simili con la Libia, le politiche di respingimento (le stesse per le quali l’Italia era stata condannata nel 2012) adottate ora dalla stessa Europa. Da paese di transito siamo diventati paese di destinazione. Non certo perché l’Italia offra condizioni particolarmente allettanti, ma perché l’Europa è in via di dissoluzione e gli altri stati membri dell’Unione hanno di fatto chiuso le frontiere.
Se fino a tutto il 2014 la maggior parte delle domande di asilo aveva risposta positiva, verso la metà dell’anno successivo la tendenza inizia a invertirsi. Lo si intuiva in quelle settimane dall’insistenza con cui i rappresentanti istituzionali e gli organi di stampa iniziavano a dare forma a quello che è poi diventato il ritornello di questi mesi: la necessità di separare i profughi “veri” dai migranti economici. Tradotto in termini operativi: le commissioni non danno più i motivi umanitari. Cominciano a fioccare i dinieghi. Oggi si avviano verso il 70% del totale delle domande.
Questa situazione potrà anche essere arrivata in sordina, ma ora è evidente. E non ci si spiega come i comuni, le prefetture, le organizzazioni che si occupano dell’accoglienza non sembrano porsi la domanda più urgente: che cosa ne facciamo di tutte queste persone obbligate a rimanere qui? Che senso ha spendere tutte queste energie a costruire un sistema di accoglienza per persone destinate a diventare in un paio d’anni (contando i ricorsi e gli appelli) irregolari? Quali obiettivi persegue questa operazione oltre a quello, collaterale, di consumare, in ragione della sua irrealtà, l’intelligenza, la vitalità, la capacità di integrarsi di migliaia di persone sottoposte a questo “trattamento”?
Domani
Dopo un viaggio come quello che hai fatto, una giovane educatrice ti accompagna in albergo o in qualche struttura simile; per un anno e mezzo segue per tuo conto le pratiche burocratiche, ti accompagna a fare la spesa, dal dottore, in questura, a iscriverti al corso d’italiano del Cpia, se sei fortunato a fare uno stage di teatro, un corso di formazione, un tirocinio formativo e alla fine di tutto ti comunica che per lo stato italiano sei irregolare. Quanto potrà durare ancora questa messa in scena?
Lo scopo dell’accoglienza, almeno in Italia, non è mai stato quello dell’integrazione. Si è sempre lavorato nell’ipotesi (se non nella speranza) che si trattasse di circostanze straordinarie e temporanee, con le persone destinate in qualche modo a scomparire dopo qualche tempo. Non c’è mai stato un sistema orientato all’integrazione. Ma se non altro, fino al 2015, la macchina produceva un turn over che, per quanto farraginoso, raggiungeva il suo cinico scopo: mettere in mezzo alla strada persone che avevano un titolo per poterci restare. Una volta ottenuto un documento, le persone cominciavano a vagare in autonomia e con notevole perizia: andavano a Malta, in Germania, quando venivano “pizzicate” tornavano in Italia, ripartivano per la Svizzera, la Francia, la Svezia o un altro paese che offriva qualche chance di lavoro nero, nel frattempo scendevano a Rosarno per la stagione della raccolta, o nelle campagne emiliane a lavorare a 2 euro e 50 l’ora, e via di seguito. Non certo il paradiso.
Ma domani, se possibile, sarà anche peggio. I 180mila migranti che hanno fatto richiesta d’asilo nel 2016 non usciranno dall’accoglienza in un anno. Verranno diniegati, faranno ricorso e poi ricorreranno in appello. Prima di liberare il posto, di anni ne passeranno almeno due. Nel frattempo ne arriveranno altrettanti. Territori impreparati e isterici per la presenza di 180mila persone, come reagiranno quando, nel giro di un anno, se ne ritroveranno il doppio? L’unica alternativa proposta attualmente è quella della diminuzione delle tutele giuridiche dei richiedenti protezione, con l’annullamento di un grado di giudizio e la riapertura dei Cie. È una facile previsione immaginare le proteste dei profughi contro i dinieghi, le manifestazioni dei gruppuscoli xenofobi fuori dagli alberghi, la radicalizzazione religiosa degli elementi più disturbati, ma anche l’invecchiamento precoce, professionale e umano, di molti giovani educatori chiamati a fare da maschere inconsapevoli di questa alienante messa in scena.
Questo sarà il clima, questo lo scenario che ci aspetta. Con la differenza che se fino a un paio d’anni fa i migranti erano concentrati in grandi centri localizzati, adesso iniziano a essere molto più diffusi, anche nei piccoli centri, e molto più diffuse inizieranno a essere le situazioni di tensione sociale.
Il conflitto non solo è utile, ma necessario. La grande messa in scena non troverà sbocchi positivi se i profughi e le persone che vivono e lavorano vicino a loro, gli educatori delle cooperative e i loro coordinatori, gli insegnanti di italiano, le figure politiche come quelle tecniche degli enti locali, gli operatori dei centri stranieri, i prefetti, i questori non si faranno carico del pezzo di conflitto che spetta loro.
C’è un conflitto che degrada e un conflitto che libera. Il primo, quello verso cui la “crisi dei rifugiati” si sta orientando, è quello condotto sulla base di rappresentazioni fittizie della realtà. L’escalation della violenza sarà in questo caso inevitabile e drammatica. Il secondo è quello accettato, non celato, mediato a partire dal presupposto che gli attori in campo sappiano veramente quello che sta accadendo all’altro. Temiamo che terze vie non ce ne siano.
Questo articolo di Fausto Stocco e Luigi Monti è uscito sul primo numero della nuova serie, n.37 marzo 2017, de “Gli asini”.