Rimettiamo in agenda la strategia d’uscita
Riceviamo da Silvana Pisa, vicepresidente gruppo parlamentare SD al Senato, e pubblichiamo il suo ultimo articolo apparso su “aprileonline” che fa il punto sulla presenza delle truppe italiane in Afghanistan: quali gli effetti del loro annunciato aumento sui processi in atto in quell’area? Il Ministro della Difesa {{Parisi}} – nell’audizione alla commissione Difesa della Camera di mercoledì scorso – ha ribadito che dal prossimo dicembre ci sarà {{un incremento del nostro contingente a Kabul}} di 250 militari italiani dovuto alla concomitanza dell’assunzione, da parte dell’Italia, del comando di quell’area. Il fatto che la notizia non sia nuova – la aveva già annunciata a maggio alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato; la aveva ripresa a fine luglio alla Commissione Difesa del Senato – nulla toglie alla gravità della stessa.
Lo affermiamo {{riepilogando i fatti}}. Quando lo {{scorso marzo}} approvammo in Parlamento le missioni internazionali, Afghanistan compreso, questa decisione – molto lacerante per tutta la sinistra – fu presa sulla base di {{2 impegni del Governo}}. Il primo impegno, sostenuto dal ministro degli Esteri D’Alema al Senato, riguardava l’adesione a linee di cambiamento che dovevano portare ad una {{diplomatizzazione della vicenda afgana}} in vista della famosa conferenza internazionale di pace.
Il secondo impegno lo prese il Presidente del Consiglio: il 7 marzo Prodi affermò “{{non 1 soldato in più per l’Afghanistan}}”. I militari italiani in Afghanistan erano allora 1920.
Ma {{poco tempo dopo}}, quasi contemporaneamente all’invio degli elicotteri Mangusta, degli aerei Predator, dei blindati Dardo e Lince, furono {{inviati in Afghanistan altri 300 uomini}}. La motivazione tecnica fu che l’aumento del nostro contingente era giustificato dalla necessità di inviare personale addestrato per i nuovi mezzi; la motivazione politica riguardava, l’insistenza della richiesta della Nato dato l’aggravamento -indiscutibile- della situazione sul campo (richiesta a cui, come ci ricorda sempre il generali Mini, qualsiasi alleato può tranquillamente sottrarsi).
{{Questo incremento ha significato il superamento di quei paletti politici che la sinistra dell’Unione aveva ottenuto}}: in Afghanistan non 1 uomo in più, non un’arma in più, nessun mutamento delle regole d’ingaggio. Le nostre truppe sul territorio afgano sono ora di 2230 uomini dislocati tra Kabul ed Herat, tra cui circa 300 militari appartenenti alle forze speciali di cui poco o nulla viene detto ma che per il loro ruolo, sembrano confacenti ad operazioni “combat” che esulano dalle nostre regole d’ingaggio.
La questione richiama un tema tutto politico: {{si può pensare di risolvere militarmente i nodi politici irrisolti?}} La vicenda irachena e l’attuale discussione tra Pentagono, Presidente Bush e Parlamento USA sull’efficacia dell’aumento delle truppe contrapposta alla necessità di una strategia d’uscita, dovrebbero dimostrare altro.
Cioè – che al di là della propaganda Petreus-Bush – l’aumento dei contingenti militari in Iraq non ha consentito alcun miglioramento della situazione materiale sul campo. I dati ci parlano non solo di una {{disastrosa condizione di sicurezza}} (i morti dell’ultimo semestre, gennaio-giugno 2007, raggiungono la cifra drammatica di 11.939 per gli iracheni, e 576 per gli americani), ma di {{condizioni di vita}} (sanità, energia elettrica, acqua ecc…) di gran lunga peggiori dei tempi Saddam, nonostante l’embargo d’allora! Il punto è sempre quello della mancata adozione di una politica in grado di conquistare consenso, trattativa, pacificazione.
La mancata soluzione è sottolineata dal tira e molla sulla {{privatizzazione delle risorse petrolifere locali}} che, finché non saranno saldamente nelle mani degli Usa e dei suoi alleati – e quindi a tempo indeterminato – non permetterà alle truppe statunitensi di lasciare in via definitiva il paese. A questo rimanda la posizione determinante degli sciiti iracheni – il presidente Al Maliki è sciita e non a caso non gode più della fiducia di Bush – e del loro rapporto stretto con l’Iran. Questo riguarda {{la richiesta della stragrande maggioranza del paese: ritiro delle truppe occupanti e processo di pacificazione}}.
La “lezione irakena” non ci insegna nulla?
Dalla campagna di primavera talebana e dal contemporaneo inizio dell’operazione Achille condotte dalla Nato e da Enduring Freedom, il numero dei morti civili è aumentato e le condizioni di sicurezza del paese sono notevolmente peggiorate. {{Nei mesi scorsi si è parlato del nefasto intreccio tra le truppe Nato e quelle di Enduring Freedom,}} con un rimpallo di responsabilità ipocrita perché sul campo il comando delle operazioni è strettamente in mano USA! In questi giorni si è aperto uno spiraglio: la guerriglia talebana con il suo portavoce, Yousuf Armadi, ha proposto un negoziato che Karzai si è detto disponibile ad accettare. Non è su questo che la comunità internazionale, se è interessata alla pacificazione dell’area, dovrebbe impegnarsi? Aumentare l’invio di contingenti militari aiuta o ostacola questo processo? {{La decisione di aumentare le nostre truppe è indigeribile}} non solo perché “viola ogni impegno preso in sede parlamentare” come ha detto la collega Elettra Deiana alla Camera, ma perché va nella direzione opposta ad una riconfigurazione della missione da militare a polizia internazionale dell’ONU e ad un possibile e concomitante processo di negoziazione. {{Occorre rimettere in agenda la strategia d’uscita!}}
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