Ripartire dal lavoro come pratica politica
Sabato 13 gennaio alla Casa Internazionale delle donne si è discusso di donne e lavoro. Il lavoro cambia e, soprattutto negli ultimi anni, è cambiato.La relazione tra femminismo e lavoro ruotava intorno al discorso emancipatorio. Attraverso il lavoro le donne si sono emancipate ma il lavoro non le ha liberate. Un discorso nuovo sul lavoro deve indagare sulle modalità lavoro-globalizzazione e produzione-riproduzione.
Il rapporto che le donne hanno oggi con il lavoro le spinge a “un istinto di fuga, a rifiutarlo” afferma Beatrice Busi. Il lavoro e anche il solo pensiero di un lavoro assorbe l’intera esistenza. Avere un lavoro, per una donna che non lo ha, significa emanciparsi dalla propria famiglia di origine, ma averne uno crea un’altra dipendenza. Il mercato del lavoro infatti richiede disponibilità incondizionata, permanente.
“La trappola patriarcale, che creava dipendenza totale e dunque precarietà, dal privato si è estesa al pubblico” sostiene Adriana Nannicini, psicologa del lavoro. Il lavoro flessibile e precario, senza diritti, nega la libertà, qualsiasi tipo di libertà, ed ha inaugurato nuove forme di schiavismo e servilismo. La libertà di scegliere per se stesse sembrerebbe sfumata.
_ Il precariato e lo sfruttamento del lavoro delle donne è differente a seconda dell’età e della nazionalità (native e immigrate). “Le storie di vita delle donne migranti “ci spiegano come la divisione sessuale del lavoro sopravviva e anzi si rafforza nell’era della femminilizzazione metaforica della produzione”, nei cambiamenti intervenuti “nell’organizzazione del lavoro e nell’essenza del lavoro stesso”.
Per molte, le più giovani (ormai non più così giovani) la precarietà significa vivere una doppia dipendenza, privata e pubblica. Pur lavorando non guadagnano abbastanza per emanciparsi dalla famiglia, costrette a lavorare a qualsiasi condizione (mancanza di corrispondenza tra ore di lavoro e remunerazione) si prostituiscono al lavoro per non perderlo rinunciando a tutto il resto.
_ Si diceva “lavorare per vivere e non vivere per lavorare” eppure il lavoro totalizza ogni pensiero e per le altre sfere della vita non c’è più tempo, perdono di significato. Per le donne il riconoscimento dei diritti ha seguito un percorso inverso rispetto a quello degli uomini.
I diritti sociali hanno preceduto quelli civili (l’accesso a tutte le professioni) e, per ultimi, sono stati affermati i diritti politici… Durante il convegno Donne e Politica è stato detto che le giovani donne fanno talmente tanta fatica a inserirsi pienamente e legittimamente nel mondo (mercato) del lavoro, che preferirebbero abbandonarlo per occuparsi, se solo potessero scegliere, della famiglia. Che smacco!
Un vero e proprio scacco matto ma devono continuare a giocare, o meglio ad esserci rimanendo ferme nella stessa posizione. Se solo il mercato non avesse così bisogno di loro e loro di guadagnare qualcosa purchessia. Le loro competenze sono necessarie, le loro potenzialità creative richiestissime ma non le si vuole pagare nonostante una legge sulla parità delle condizioni salariali e avanzamento di carriera datata 1977.
Alle donne piacerebbe esprimersi, in qualsiasi tipo di lavoro, legare le loro potenzialità alla capacità autonoma di vivere, unire il piacere di scegliere a quella di vivere in maniera autonoma, come ha affermato Marina Pivetta partendo da sé. Ma, parafrasando la Nannicini, le condizioni di lavoro sono così avvilenti che farebbero volentieri a meno anche dei contenuti che le appassionano.
Dal 2000 in poi le donne hanno ricominciato a parlare di lavoro come pratica politica. “Narrazioni che assumono un valore rispetto a ciò che si fa, per capire il lavoro che cambia e gli esiti di questi cambiamenti, metterli in comune per capirne il valore e il disvalore”.
Però queste pratiche conoscitive diventano trasformative solo a livello individuale, non ci sono state trasformazioni collettive. Allora la proposta di un reddito di cittadinanza sembra essere la soluzione per avere la possibilità di negoziare condizioni di lavoro dignitose.
Un reddito garantito darebbe ad ognuna la possibilità di dire no con forza e decisione all’organizzazione del lavoro postfordista, perché, secondo la teoria dei giochi, tutte e tutti devono (poter essere messi nella condizione di) lasciare affinché ci sia un cambiamento.
Per capire la complessità del problema si è proposto di organizzare alcuni seminari per discutere di:
– lavoro manuale e lavoro intellettuale
– lavoro e lavoro politico
– lavoro nelle organizzazioni gestite da donne e dei conflitti generazionali tra garantite e sfruttate
– cooperative di donne nelle quali lavorano immigrate con contratti a tempo determinato e co.co.co
– lavoro pagato e idea di trasformazione del mondo
– concorrenza fra donne
Lascia un commento