Risposta di una professoressa
Articolo di Antonietta Lelario* Facciamo Comune insieme.
La Lettera ad una professoressa della scuola di Barbiana di don Milani scoppiò nel ’67 come una bomba scuotendo l’opinione pubblica, denunciando e mostrando come la selezione che avveniva nella scuola pubblica italiana fosse “di classe”, cioè colpisse chi partiva svantaggiato dal punto di vista economico sociale, chi scriveva l’aradio, perché la lingua italiana era per lui una lingua straniera. E di ciò la professoressa chiamata in questione non si preoccupava. Era indifferente.
La bomba colpì nel segno perché era il risultato di un’esperienza pratica e toccava un nodo centrale nel conflitto fra le classi sociali: l’importanza di avere il possesso della lingua per difendersi e contrastare il potere. Don Milani riapriva così il gioco fra la scuola e il suo tempo storico.
Di lì a poco sarebbe fiorito il ’68 che avrebbe trovato nelle scuola e nelle università la sua culla e avrebbe fatto di questo testo una bandiera. Quello che don Milani, indirizzando la sua lettera ad una insegnante donna, non aveva visto era che le donne non rappresentavano affatto la scuola istituzionale dove approdavano come ospiti impreviste. Anzi sarebbero state una componente fondamentale di quel ’68, delle lotte operaie, dei movimenti degli studenti e dei docenti e, per fare spazio al femminile nuovo che emergeva, li avrebbero riempiti di nuovo senso. Non avrebbero poi esitato a sperimentare il separatismo dei collettivi femministi. Poi, con una capacità più unica che rara di rigenerarsi, avrebbero aperto librerie, università cittadine, centri documentazione e circoli. Infine, sarebbero tornate a scommettere di nuovo sulla possibilità di relazionarsi con gli uomini inseriti anche loro in un percorso di cambiamento.
A cinquant’anni dalla pubblicazione della Lettera ad una professoressa, una insegnante, Vita Cosentino, una femminista che con passione ha fatto del suo lavoro il luogo di un impegno culturale e politico, mostra a tutti e tutte noi il cammino fatto in un libro Scuola: sembra ieri è già domani (Ed. Moretti&Vitali) che si interroga e ci interroga sulle pratiche di insegnamento e sull’agire femminile, sul senso che hanno se solo le sottraiamo al silenzio che spesso le copre. Lei si chiede:
“Occorre scendere in piazza, riempire le pagine dei giornali per poter parlare di movimento politico?”(pag. 51).
E citando Chiara Zamboni sostiene che c’è un’altra politica: “È la vita quotidiana il luogo pubblico del contendere per dare spazio ad un presente vivo” (pag. 12).
“Molte (docenti) portano con sé un modo diverso di stare nelle relazioni, un’attenzione alla soggettività, al tessuto umano tutto intero di corpo emozioni e parole che tende a trasformare la scuola da come l’hanno trovata” (pag. 14)
Il suo è un racconto autobiografico, ma anche paradigmatico, tanto da essere rintracciabile nella vita di tante di noi, nella stessa vita della nostra città e in tante iniziative del nostro tempo che agiscono su un piano apparentemente invisibile perché ciò che cambia sono le aspettative, le urgenze, le speranze, per“non perdere il contatto con le cose e così sentirle e saperle” (pag. 13).
Non è un racconto nostalgico. Vita Cosentino sa la differenza fra oggi e ieri, sa i cambiamenti avvenuti in questi cinquant’anni, sa che l’apertura al tempo storico nell’istituzione scolastica è avvenuta nella forma dell’ossequio ai criteri aziendali e alle logiche competitive, ignorando l’altro che c’è e che chiede risposte. Sa che proprio in quell’ascolto all’altro che c’è si evidenzia il meglio dell’esperienza delle docenti donne e di alcuni uomini. Sa che lì si annida il piacere e la possibilità stessa di insegnare: “Negli anni ’70 il dibattito si è polarizzato sul promuovere o bocciare, mentre la vera scommessa è riuscire davvero ad insegnare” (pag. 50).
Non vuole che il sapere conquistato con un’avventura di carattere esistenziale, culturale, politica, sia buttato a mare. È per il desiderio di confrontare e far circolare quel sapere che ha affrontato la fatica di scrivere.
Lo stesso desiderio, che la parola e l’esperienza femminile non cadano nell’irrilevanza, che non siano percepite con indifferenza, perché attraverso di loro si vedono aspetti e possibilità del reale che altrimenti non si vedrebbero e che invece lo cambiano radicalmente ci spinge a ritornare su quale scuola e quale università vogliamo, non come utopia lontana, ma come speranza presente perché: “La scuola è e rimane il luogo privilegiato di incontro tra le generazioni. È il luogo in cui, tutti i giorni, esseri umani in carne ed ossa sono in relazione e si parlano, è il luogo in cui si può essere in gioco con la propria umanità” (pag. 12).
“Il libro rimane frammentato, non va a costruire una teoria, l’ennesima sulla scuola o sulla politica. Rimane sul bordo: tra racconto e idee che ne nascono. Aperto agli scambi con il pensiero di altre, di altri, autorizza a pensare in proprio. Chiama quindi ad aggiungere piuttosto che a ripetere” (pag. 13 ).
È una pratica che caratterizza il movimento di autoriforma della scuola e dell’università, così come io l’ho conosciuto e frequentato e del quale l’autrice di questo libro è stata anima e riferimento essenziale. Non è una scelta di comodo o un modo per sfuggire a responsabilità più grandi, cosa di cui spesso è accusata la politica delle donne, è un modo per tenere aperto il passaggio con il cambiamento epocale che stiamo vivendo. Citando Alain Touraine l’autrice vede una società marcata dall’opposizione di due principi non sociali: la globalizzazione da una parte e il soggetto personale dall’altra parte.“Nel ribaltamento che ci transita da una civiltà di conquistatori del mondo a quella della costruzione del sé, la società degli uomini è sostituita da quella delle donne” (citazione a pag. 19).