ROMA – Cinema al Maxxi – TARDA PRIMAVERA
“Se non occupi la tua mente in inutili cose, ogni stagione è per te una buona stagione”. (Wu Men Hui-k’ai)
Tratto dal romanzo Padre e figlia di Kazuro Hirotsu, Tarda primavera (Banshun) è il primo dei tre film del regista sceneggiatore Yasujirō Ozu, in programmazione al MAXXI in occasione dell’Exhibit “The Japanese House” dal 1945 a oggi.
Lo spazio armonioso a misura d’uomo della casa giapponese così come lo scorrere e il rientrare di ogni struttura, lo scambio continuo tra interno ed esterno, il ruolo sovrano della natura sono un’importante chiave di accesso all’essenzialità e la purezza formale di Ozu. Considerato da molti critici il più giapponese dei registi nipponici, questo regista speciale è nato a Tokyo il 12 dicembre del 1903 e morto nello stesso giorno del 1963, come se lui stesso fosse testimonianza di quella visione zen della vita, presente in tutti i suoi film.
Tarda primavera racconta la storia di Shukichi Somiya, un vecchio professore vedovo che su pressione della sorella decide di fare sposare la figlia con cui condivide un’esistenza “perfetta”, scandita dalla tradizione. Noriko è in età da marito, anzi oltre. È tempo, infatti, di tarda primavera e la maturità incalza con l’ineluttabilità dell’autunno. Noriko resiste, il padre agita lo spettro di volersi risposare, un vero e proprio tradimento per la figlia abituata a essere l’unica donna in mancanza della madre e, di botto, tutto cambia. Padre e figlia devono fare i conti con la fine del loro rapporto esclusivo.
Il film è datato 1949 eppure la sensibilità con cui il regista mette in scena il sentimento che lega padre e figlia ne fa un’opera straordinaria nel panorama cinematografico che s’interroga – soprattutto negli ultimi anni- sulla figura del padre e sui percorsi della paternità oltre i modelli, la biologia e l’immaginario collettivo.
Shukichi è un padre tradizionale eppure capace, per amore della figlia, di mettere in secondo piano il suo bisogno di accudimento. Ozu accompagna lo spettatore lungo questo percorso di rinuncia mostrandolo all’inizio solido come un hashira, il pilastro “sostegno”della casa giapponese e alla fine umanamente ripiegato su se stesso, una mela in mano e il dolore nel cuore. Noriku è la figlia devota con il sorriso perenne sulle labbra, soddisfatta di avere accanto un uomo-padre che la ama senza riserve e che lei non abbandonerebbe mai, salvo dovere affrontare il rischio di condividerne il cuore con un’ipotetica intrusa.
Yasujirō Ozu scava dentro i personaggi con una scrittura minimalista eppure piena, valorizza ogni dettaglio e dipana ogni emozione, di scena in scena, lasciando che nella narrazione passato presente e futuro scorrano impercettibilmente l’uno nell’altro.
Famosissima la scena in cui Shukichi e Noriko sono distesi sui futon in un’intimità piena di naturalezza. Hanno fatto insieme l’ultimo viaggio da padre e figlia. Tra loro, ormai, è stato detto tutto: Noriko è felice così com’è con il padre, perché deve sposarsi? Il padre le ha parlato della madre, infelice all’inizio del loro matrimonio, poi non più perché quella tra marito e moglie è una felicità da costruire giorno dopo giorno. A luce spenta, con la natura esterna che entra all’improvviso attraverso la trasparenza delle pareti, Noriko dice al padre di essere stata ingiusta a considerare sconveniente l’amico di famiglia perché si è risposato. Ha pensato la stessa cosa a proposito del paventato matrimonio del padre. Sorride e attende che il padre dica qualcosa. Forse spera, chissà, che lui la rassicuri, ma il padre tace, dorme oppure finge. La macchina da presa inquadra un vaso oltre il corpo immobile del padre, una forma talmente perfetta -sullo sfondo della natura viva del giardino- da comunicare malinconia. La stessa che spegne il sorriso di Noriko.
L’autenticità, sembra dire Ozu, è nell’imperfezione delle cose così come la “perfezione” del vivere è nell’apertura alla vita, accettandola così come viene. Non a caso, l’ultima immagine del film è quella del mare con il suo perenne andare “al largo” verso l’ignoto e poi tornare alla terra (di nuovo) ferma.
Sullo sfondo della narrazione i segni di un Giappone che cambia: la Coca Cola campeggia in una stradina di campagna simbolo di un’America da incorporare senza mediazione rituale come invece impone il domestico tè o il sakè; Gary Cooper diventa un ideale di bellezza con le sue labbra carnose e la bellezza da cow boy; i rapporti tra uomo e donna cambiano ineluttabilmente spinti da una modernità che terremota le fondamenta della famiglia tradizionale.
Bravissimi Ryû Chishû e Setsuko Hara nei panni del padre e della figlia.
Il secondo film in programmazione al MAXXI è Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953) in programmazione sabato 18 febbraio alle 18; il terzo è A story of Floating Weeds (Ukikusa Monogatari, 1934) con l’accompagnamento dal vivo dell’orchestra dell’Istituto Boccherini di Lucca, in programmazione sabato 25 febbraio ore 18. Due capolavori da non perdere.