ROMA – GIOVANNA CAMPANI e MIRELLA LEONE 1° EX AEQUO sezione saggistica DEL PREMIO PAESE DELLE DONNE & DONNA E POESIA 2016 – La premiazione il 27 novembre alla Casa Internazionale delle Donne
GIOVANNA CAMPANI, Antropologia di genere, Rosenberg & Sellier, 2016
Il libro, dal contenuto molto interessante non solo per le e gli appassionati di antropologia, inizia dal XVII secolo con l’antropologia del secolo dei Lumi, titolando il capitolo La nascita delle scienze dell’uomo, definizione che riflette l’etimologia della disciplina. L’antropologia sta appunto per discorso, logos, sull’uomo e risulta subito chiaro, a partire dal terzo capitolo soprattutto, dal titolo Le pioniere. Donne antropologhe nell’Ovest americano, come le donne abbiano portato nuova linfa e sguardi di genere in un orizzonte che era nato monosessuato.L’Autrice precisa infatti che la “storia dell’antropologia di genere non può prescindere dal ruolo delle donne nella costruzione dei saperi antropologici, ma a sua volta l’importante presenza di donne antropologhe non può prescindere dall’emergere del movimento femminista”.
Come si legge nell’Introduzione del resto,il filone antropologico è fortemente influenzato dalla questione dell’emancipazione: battaglie contro la schiavitù, per i diritti delle donne, per i diritti delle popolazioni non europee colonizzate. Il libro ha il merito fra gli altri, di ricordare ad alcuni/e e di presentarlo come una novità ad altri, che i fondatori e fondatrici di questa disciplina oggi radicata nel nostro sistema formativo universitario vengono da lontano, a iniziare come già ricordato nel Settecento, come scienza dell’uomo separata dalla storia teologica della Bibbia, per poi proseguire e fare i conti con la teoria dell’evoluzione della specie di Charles Darwin, proseguendo con l’opera dello statunitense Lewis Morgan e dell’inglese Edwuard Tylor. Ma risulta anche evidente come gli antropologi, di solito imoegnati sul campo con le loro ricerche, abbiano proseguito poi sempre sul campo l’impegno politico, contro i fascismi, i razzismi e i totalitarismi. Come Franz Boas, difensore dei diritti umani e contro ogni forma di razzismo.
Le antropologhe dovettero liberarsi da pregiudizi maschili che consideravano lo sguardo maschile oggettivo e razionale, e quello femminile emotivo e irrazionale. Neanche uomini come Tylor che pure riconoscevano a donne come Matilda Coxe Stevenson un ruolo innovatore e percettivo nei confronti di donne e bambini. Uno stereotipo contro cui dovette lottare la Wasa, Women’s Anthropological Society of America, fondata dalla stessa Coxe e altre nove donne. Non sempre le pioniere della disciplina coniugarono ricerca e famiglia, come Matilda Coxe; Alice Cunningham Fletcher, scomparsa nel 1923, fu sempre una single woman e non si sposò. Impegnata nel femminismo, s’impegnò nella difesa delle popolazioni native nord americane.
Critiche di eccessivo radicalismo furono rivolte ad alcune come Elsie Clews Parsons, prima allieva di Franz Boas, scomparsa nel 1941,attivista femminista di formazione sociologica. Il matrimonio di prova, il divorzio consensuale, l’accesso a una contraccezione affidabile furono attaccate dalla stampa conservatrice e clericale.
Innovativi e fondamentali furono i lavori di Ruth Benedict, che applicò il relativismo culturale introdotto da Boas. “Il solo modo in cui possiamo conoscere il significato dei vari dettagli del comportamento è guardando ai motivi, ai valori e alle culture che appaiono istituzionalizzati in quella cultura”.
Un contributo che l’Autrice definisce difficile da riassumere fu quello di Margaret Mead, e i suoi studi sugli adolescenti in Nuova Guinea. Definita da una studiosa autentica figlia dei fiori, interessta alla pace, alla giustizia, alla libertà sessuale e all’avventura, lavorava senza sosta per il cambiamento sociale. Nella sua opera Sex and Temperament è già presente il concetto di genere. La Mead aveva frequentato anche i corsi della Benedict e fra le due ci fu una lunga relazione, anche se entrambe scelsero di non parlarne; “solo dopo la morte della Mead furono rese pubbliche alcune lettere da cui trapelavano la profondità e l’intimità della loro relazione”. (Fiorenza Taricone )
MIRELLA LEONE, Da studentessa a professoressa. Una donna dell’Ottocento alla conquista della professione, Bonaccorsi, 2015
Florina Salvoni, nata a Ferrera Erbognone (Pavia), il 30 giugno 1856. fu la prima alunna del Liceo Scipione Maffei di Verona; la prima laureata dell’Università di Firenze (prima del 1890); una delle prime, se non la prima professoressa del Regno d’Italia e la prima che insegnò non provenendo dal Magistero ma da un percorso riservato al maschile (liceo e Università).
I dirigenti ministeriali, di fronte all’unicità, la dissero «maestra specializzata, sopramaestra.»
Come ebbe «la felicità» di studiare, Florina Salvoni ebbe quella d’insegnare (Alessandria, Udine e Bergamo); di contribuire alla formazione dei maestri elementari; di essere il simbolo della femminilizzazione dell’insegnamento, «settore d’avanguardia laddove in altri settori, come l’avvocatura, le donne venivano respinte, l’A. ricorda Lidia Poet, la prima donna ad accedere all’avvocatura dopo quarant’anni di battaglie (1920).»
Nell’avvincente biografia su colei che da sola, passo dopo passo, primeggiando per merito, «compì una piccola ma in realtà grande rivoluzione, affermando il suo diritto all’istruzione al livello più alto e alla libertà di accedere a uno spazio pubblico», l’A. dichiara la scarsità delle fonti: «un opuscolo, i certificati anagrafici, alcuni documenti di archivi storici di varie scuole e curie, brevi cronache locali.»
Florina Salvoni era una ragazza graziosa, intelligente, educata, sapiente, che realizzò i suoi desideranda in tempi in cui uomini illustri gareggiavano in frasi sessite: es. Gioberti, filosofo e politologo: «La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostenta da sè.»
Antesignana delle tante giovani donne post-unitarie che si dedicarono all’insegnamento – molte maestre, poche professoresse – Florina Salvoni dette il suo contributo alla crescita culturale e all’unità del paese che nell’alfabetizzazione di massa attraverso l’obbligo scolastico e nella leva (maschile), trovavano i capisaldi della costruzione simbolica e sociale dell’unità nazionale.
Sul periodo molto si è detto ma l’A., guardando a ciò che è cancellato o distorto, parla delle «giovani donne affamate di sapere e di lavoro» che affrontarono solitudini, disagi economici dovuti agli scarsi stipendi (la metà di quelli maschili a parità di lavoro), e agli impedimenti di carriera, penalizzate da pregiudizi e dalla dipendenza dall’Autorità locale, spesso ricattate nella sfera sessuale, per ottenere, come Florina Salvoni, protagonismo intellettuale, autonomia economica, relazioni transgenerazionali improntate alla stima, alla gratitudine, all’affetto.
Esaminando la letteratura di settore, l’A. nota che «prima della stereotipata, deamicisiana Maestra dalla penna rossa, nulla parla delle professoresse, come se non esistessero»: es. Massimo Bontempelli, ne il Socrate moderno, biografa molti professori, nessuna professoressa e cita solo le vedove dei professori.
In merito al termine professoressa, cui l’uso non sessista della lingua introdotto da Alma Sabatini preferisce professora, l’A. ricorda che in mancanza di un termine che indicasse quella nuova presenza sulla scena pubblica, professora fu scartato poiché ritenuto una derivazione dal maschile non un sostantivo femminile di una lingua senza il neutro.
«L’anno della personale conquista di diritti di Florina Salvoni fu il 1884, quello in cui Anna Maria Mozzoni pubblicò “Alle fanciulle”» sottolinea l’A. e cosa lei ne pensasse, come e se partecipasse alle istanze suffragiste non è detto, sia perché una parte dell’emancipazionismo metteva la lotta per il suffragio in secondo piano, nella politica dei due tempi, sia perché di Florina Salvoni non si sa niente dopo che ebbe ottenuto la Laurea e l’insegnamento, ma in ambiti più limitati, femminili, di quelli che il titolo le avrebbe consentito.
La sua parabola svanisce dopo l’incarico a Bergamo, non si sa l’età e il luogo della morte, ma l’A., non meno determinata della sua eroina, promette ulteriori studi, con ottica di genere (Maria Paola Fiorensoli)