Da sempre le parole dell’economia non sono adeguate a comprendere i corpi femminili, tutta una enorme parte dell’agire umano, e questo perché l’economia si è concentrata su un’astrazione, quella dell’homo oeconomicus produttivo, che nella storia risulta in realtà essere il maschio bianco occidentale adulto sano, il soggetto dominante nella rappresentazione culturale che cancella e/o mistifica la realtà della differenza di genere e di tutte le differenze, oltre che del transitare umano nelle diverse età della vita e che oggi si estende ad altri continenti.
La femminilizzazione della povertà, presente in tutto il mondo da sempre, torna oggi in forme nuove in quello che è stato definito lo sviluppo economico neoliberista, attraverso il controllo e il mutamento di significato sociale della presenza femminile, lo sfruttamento e l’assoggettamento dei corpi, l’uso della violenza e la manipolazione dell’immaginario.
Vediamo che il carattere patriarcale della società è sopravvissuto a tutti i grandi mutamenti intrecciandosi ad ogni nuova forma dell’economia, dentro le leggi, dentro la forma dello Stato e delle istituzioni.
Dobbiamo ricordare che la cittadinanza in Europa nasce proclamando libertà e uguaglianza ma escludendo a lungo e in modo violento il genere femminile, per cui da due secoli le donne hanno dovuto affrontare lotte infinite.
Noi donne siamo state troppo a lungo straniere senza diritti, dentro le nostre stesse case, per non capire oggi il legame profondo tra gli attacchi alla nostra autodeterminazione nelle scelte procreative e di vita, le nuove forme di sfruttamento e subordinazione del lavoro e il rinascente sessismo che, insieme a omofobia e razzismo, rilancia arroccamenti identitari affermati con la violenza.
Il diritto al lavoro, non sfruttato, è il mezzo con cui affermiamo la nostra autonomia e la libertà della nostra esistenza, che non possono essere assoggettate ad un modello monosessuato mortificante e lesivo della nostra dignità.
Il primo articolo della nostra Costituzione riconosce il lavoro come fondamento della Repubblica dando ad esso quel significato di autonomia della persona, autodeterminazione, valore sociale ed individuale che, secondo noi, è alla base di tutte le libertà e della piena cittadinanza. Da tempo non chiediamo inclusioni, parità tutele: non siamo una minoranza che chiede di essere ammessa a godere dei diritti pensati escludendoci, ma soggetti per i quali lavoro ed autodeterminazione, libertà e autorealizzazione, sono condizioni che vogliamo per le nostre vite e criteri con cui vogliamo misurare la politica, perché un mondo a misura di donne è un mondo a misura di tutti.
Le questioni da cui siamo partite
1) Stare al mondo, mettere al mondo, venire al mondo.
La vita delle donne è strettamente legata al tema della maternità che coinvolge sessualità, contraccezione, salute riproduttiva e parto. Ancora oggi il corpo delle donne è più oggetto di ricatti e baratti politici che di attenta e approfondita riflessione; questo ci riguarda per l’enorme difficoltà di circoscrivere, nei termini possibili di una sola politica, temi come la maternità, la contraccezione, il desiderio di maternità, il rifiuto della maternità, la sterilità, e avere e la piena soggettività personale e sociale nelle scelte relative alla riproduzione.
Per questo, mentre va rispettata la scelta di volere o non volere un figlio, non accettiamo che la scelta sia conculcata dalla mancanza di lavoro, di servizi e di futuro.
Per quanto riguarda la gravidanza per altri pensiamo che il corpo delle donne non si affitta e non si compra, perché bambine e bambini non possono essere oggetto di dono o di mercato. Il desiderio di maternità e di genitorialità di coppie etero e omosessuali rischiano oggi di essere assoggettati ai criteri della potenza tecnologica e del rendimento produttivo, trasformando donne in contenitori economicamente definibili, figlie e figli in oggetti di investimento, senza alcuna coscienza del limite. Oggi il neoliberismo sta conquistando il tema della riproduzione umana riassoggettandolo al binomio sfruttamento-profitto, come ha già fatto con il lavoro di manutenzione della vita.
2) Quale mondo?
L’assoggettamento dell’ambiente e dell’agricoltura alle logiche del profitto e del mercato ha compromesso gravemente l’equilibrio degli ecosistemi e nel nostro paese ha significato un dissennato abuso del territorio insieme con la negazione del diritto alla salute, compresa quella riproduttiva e al rilancio del lavoro schiavile, cancellato dalle leggi ma ancora di fatto governato dalla criminalità organizzata e dai singoli padroni, alla cui impunità solo l’ultima legge sul caporalato (approvata il 19 ottobre 2016) potrebbe mettere un limite.
La resistenza delle donne che alimenta il modello cooperativo delle relazioni umane, fondamento della conservazione della vita, vuole oggi rendersi visibile come base concreta per il rilancio del patto democratico costruito dopo i disastri delle guerre mondiali nel Novecento; un patto che oggi viene mortificato e aggredito da fondamentalismi vecchi e nuovi, dall’autoreferenzialità della classe politica che si riproduce negli ambiti e sotto l’ala del potere economico, sottraendo agibilità democratica alla cittadinanza e diffondendo modelli passivizzanti e aggressivi nelle relazioni umane.
L’equilibrio tra territorio e urbanizzazione deve rimettere al centro il diritto alla salute e alla casa come luogo in cui si riproduce la vita umana, presidio di buona gestione della quotidianità, riparo e sicurezza per ogni individua/o contro rendite e speculazioni che, in Italia, hanno svuotato i centri storici e tengono artificiosamente elevati i costi di mercato per chi cerca casa.
3) L’importanza della cultura.
I contenuti della trasmissione culturale nelle istituzioni fondamentali del territorio, scuola, università, sistema informativo e mediatico, vanno adeguati alle tante raccomandazioni per un uso non sessista (e nemmeno razzista, xenofobo, etnocentrico e omofobico) della lingua e della cultura in generale.
La modifica dei libri di testo scolastici è inscindibile da una riforma della scuola che metta al centro la relazione educativa tra i soggetti attraverso le condizioni più adeguate di spazio, tempo e numero di insegnanti, educatrici/educatori, operatrici/operatori, organizzate/i secondo principi democratici rispettosi delle soggettività di chi lavora e di chi fruisce del lavoro.
Vogliamo potenziare e diffondere l’impegno a segnalare, contrastare, eliminare, con azioni e lotte, tutti i tipi di messaggi sessisti e offensivi che possiamo trovare nelle nostre vite, nelle strade, nei libri scolastici, nella pubblicità, nelle trasmissioni tv e, non ultimo, nei luoghi di lavoro, nelle relazioni del precariato, e persino nei reparti ospedalieri e sale parto, luoghi dove la donna è ancora vittima di condizionamenti, intimidazioni e minimizzazioni di carattere sessista.
4) Quale lavoro?
Noi donne, nell’interezza delle nostre vite, vogliamo stare ovunque al centro dell’organizzazione del lavoro, quindi nelle contrattazioni nazionali e locali, oltre che nel lavoro autonomo, nelle diverse dimensioni professionali in continua espansione e anche nel lavoro precario.
Sappiamo che nuovi lavori e nuove modalità di lavoro non sono esenti da altissimi livelli di precarietà e proprio su questo occorre intervenire, non bloccando le sperimentazioni che spesso rispondono ad esigenze primarie di lavorare, ma governandole il più possibile immettendo criteri di sempre maggiore sicurezza e stabilità.
Osserviamo che l’attacco al lavoro in generale rappresenta anche un’appropriazione indebita del tempo di vita, soprattutto di quello delle donne che erogano servizi fondamentali dentro le case e nelle relazioni famigliari a tutti i livelli di età, configurando una vera e propria economia sommersa di cui fruisce chi si appropria della ricchezza del paese.
Consideriamo tutti i lavori della riproduzione sociale fondamentali per ogni società perché garantiscono lo sviluppo della vita umana, primo fattore indispensabile anche per la produzione che l’ha inglobata definendola forza-lavoro.
Riteniamo che la produzione debba essere al servizio della vita e non viceversa, misuriamo quindi lo sviluppo economico dalla qualità di tutti i lavori della riproduzione biostorica, domestica e sociale che devono rappresentare, nella complessità della loro erogazione, il sistema di indicatori che definiscono il benessere individuale e collettivo qualificando quindi la cittadinanza democratica.
Sanità, scuola, pubblica amministrazione, servizi alle persone e all’ambiente, formazione e ricerca, alfabetizzazione e sviluppo culturale, che consideriamo le vere infrastrutture sociali del paese, sono lavori che richiedono un modello organizzativo specifico e di qualità, investimenti e garanzie relative alla dignità delle persone e delle loro relazioni perché il benessere dell’utenza non solo dipende ma coincide con il benessere di operatrici e operatori.
Riteniamo che vada costantemente rilevato il lavoro della parte di popolazione femminile anche quella definita inoccupata, compresa quella di donne che non cercano lavoro e/o fruiscono del pensionamento. Si tratta di una mole enorme di lavoro di educazione, cura, assistenza e accompagnamento di bambine/i, anziane/i, malate/i, persone temporaneamente o stabilmente in condizioni di disabilità, erogato nella forma dello scambio famigliare e/o amicale che rappresenta una parte fondamentale di economia sommersa e contribuisce al benessere del territorio e delle persone che lo abitano.
È dunque fondamentale una sistemica e capillare raccolta dati, divisa per generi e per settori in ogni area del paese, che dia un’esatta idea di come si sta riconfigurando tutto il lavoro femminile; in particolare per quanto riguarda i lavori della riproduzione sociale e cioè tutti i settori della scuola, beni culturali, formazione e sanità, compresa l’assistenza e il sostegno a disabili, e tutti i settori della pulizia e cura dell’ambiente e degli ambienti, dalle case ai luoghi pubblici, dalla viabilità al territorio.
Occorre promuovere e rifinanziare i fondi pubblici destinati a sostenere i congedi parentali, con riferimento a tutte le forme di lavoro, compreso il lavoro autonomo, dando veramente corpo al valore sociale e politico della maternità ed ai sostegni alla genitorialità.
Il congedo parentale maschile non può essere solo simbolico, come è ora di un giorno estendibile a tre e rivolto unicamente ai padri con rapporto di lavoro dipendente, ma di sostanza, con un numero di giorni congruo dal momento del parto (almeno 15 obbligatori), per significare pienamente la condivisione della nascita e dell’immediato contesto.
Il congedo di paternità all’atto del parto non può tuttavia essere inteso come condivisione del lavoro genitoriale, che invece riguarda la cura della crescita di figlie/i e che necessita di norme precise e finalizzate ad hoc.
La visibilità di tutto il lavoro svolto dalle donne è la prima condizione per la crescita di un’economia sana: una contrattazione di genere è dunque necessaria.
Ne consegue che
a) Le donne vanno sostenute nelle libere scelte che intendono operare in ordine a procreazione, parto, allattamento, puerperio nella fase biologica naturale. Consideriamo qualsiasi imposizione che metta il benessere del figlio/a prima di quello della madre, inducendo sensi di colpa e scelte lesive del benessere psicofisico della gestante/partoriente/puerpera, come una forma di violenza.
b) Va ormai riconosciuto in modo oggettivo e non negoziabile che il lavoro, nella vita di una donna, si intreccia spesso, anche se non sempre, con la maternità e che questa non può più essere vista come una “sospensione” della capacità lavorativa, ma ne può rappresentare una “diversa fase attuativa” che arricchisce di competenze e di capacità organizzativa anche l’ambito del lavoro.
c) Le politiche di conciliazione, di condivisione e di welfare, riguardanti uomini e donne in un percorso di genitorialità e/o di assistenza e cura, e di lavori domestici in ogni fase della vita, debbono basarsi sullo stretto collegamento fra principi di welfare di carattere universale e generale, non derubricabili ed eludibili, e quelli di carattere locale e/o aziendale, che si aggiungono all’importante welfare familiare, dando valore al lavoro di sostegno degli anziani e di non autosufficienti.
d) Deve essere raggiunto su tutto il territorio nazionale il numero di nidi adeguato ai parametri nazionali italiani ed europei; nidi che, insieme con le scuole per l’infanzia, pubbliche, laiche ed inclusive, sono da considerare dentro al percorso educativo (0-6) di chi nasce e dunque debbono essere gratuiti, senza mai abbassare livelli di qualità. Tali livelli di qualità e di coerenza ad un modello educativo adeguato, sono affidati solo a serie politiche programmatiche e finanziamenti organici, coesi, non parcellizzati e dispersi tra varie voci, come succede oggi nella legge di bilancio, in una confusione senza pari. In ogni caso, che i costi attuali della maternità e degli asili nido nell’immediato siano completamente detraibili dalla dichiarazione dei redditi, soprattutto per i redditi più bassi.
e) Occorre adeguare e rivalutare le forme di sostegno al reddito e gli sgravi fiscali previsti per la cura delle persone non autosufficienti. La cura delle persone è un lavoro che, al di là della cura familiare gratuita e relazionale, comunque spesso affidata alle donne, è nella maggioranza dei casi esercitata da donne immigrate che lasciano il loro paese e le loro famiglie per occuparsi delle nostre famiglie. Questa contraddizione ci spinge a chiedere qualificazione e riconoscimento per il lavoro di assistenza e servizio alle persone che viene genericamente definito “di cura” o di badantato.
f) Una contrattazione di genere, oltre che in rapporto con le istituzioni, è necessaria anche “fra i generi” per una condivisione del lavoro domestico e di cura di bimbi e anziani, e per tener fede all’impegno di rivalutazione di tempo libero per sé. Leggi, politiche e contrattazioni dovranno tener conto anche di questo.
In conclusione
La proposta di una contrattazione di genere vuole interrogare in modo specifico le istituzioni, sia nazionali che locali (anche nel dialogo con soggetti diversi: donne e uomini, associazioni, imprese, sindacati, servizi, utenti, associazioni di categoria, ecc.) e può davvero essere un’occasione di svolta per cambiare il volto della contrattazione sul lavoro e l’espressione complessiva di un diritto del lavoro che necessita di essere urgentemente rifondato, in un’ottica inclusiva e di effettiva regolamentazione del rapporto, rimettendo al centro donne e uomini con i loro corpi e le loro relazioni.
È a partire dalle istanze delle donne che si devono ripensare le attuali strategie di superamento della crisi economica e sociale del Paese, rilanciando un dibattito trasparente e diffuso sulle scelte collettive relative al modello produttivo, basato sull’autodeterminazione, e ai parametri di valutazione dello sviluppo tra uomini e donne.
Questo, dal punto di vista delle aziende, rimanda al concetto di responsabilità sociale; dal punto di vista delle leggi e delle Istituzioni democratiche è indispensabile per consentire e costruire politiche che rilancino il lavoro inteso come diritto, come elemento di crescita umana e non solo economica; per le donne significa mettere al centro esigenze che diventano occasione di miglioramento personale e collettivo.
Assumendo questo punto di vista, possiamo affermare che le persone non sono il problema per la generale sostenibilità del sistema produttivo e sociale, ma il nodo nevralgico che ci obbliga a rivendicare una presa in carico collettiva del tessuto e del vissuto umano tramite l’istituzione del reddito di cittadinanza a difesa di una vita degna.
Vogliamo aprire una contrattazione di genere perché tutte le decisioni politiche riguardano la nostra vita: le donne non sono il problema, ma parte fondamentale della soluzione. Ovunque!
Non appena avremo il resoconto dell’UDI sull’Assemblea Nazionale tenuta a Roma il 27-28 maggio 2017,
lo pubblicheremo.