ROMA Teatro Palladium – VECCHI TEMPI di Harold Pinter – Venerdì 4, Sabato 5 novembre – ore 21
Definito dalla critica lo spettacolo più bello più bello del regista Pippo Di Marca, è arrivato al Palladium, per tre giorni consecutivi – 3, 4 e 5 novembre – Vecchi tempi, tra i migliori testi del premio Nobel Harold Pinter: una produzione Florian Metateatro di Pescara interpretata da Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio.
Un uomo e una donna vivono da soli in una casa solitaria vicino al mare e una sera aspettano a cena una vecchia amica di lei. Non si vedono da vent’anni. Con l’uomo di lei non si conoscono. Quando l’amica arriva si crea un triangolo apparentemente classico. In realtà è come se tutto il loro mondo, sia della coppia che dell’ospite, deflagrasse. Niente è più come prima. Nessuna cosa o impressione o ricordo è certa. Tutto è ambiguo, vagamente panico. E’ come se la loro vita, i loro ricordi fossero inconsistenti, improbabili, addirittura irreali, cioè impossibili, come se tutto si sfarinasse e andasse in rovina irreparabilmente, se il sentimento, qualunque sentimento, non potesse avere più forma o senso o credibilità o dicibilità. E il finale è sospeso, come le loro vite: sospeso dalla stessa vita: un rebus che non ha conclusione. Lunghi silenzi, pause, lapsus, scene montate come flashback cinematografici: dietro tutto questo si nasconde l’angoscia dei tre personaggi sopraffatti dallo scorrere del tempo, intrappolati nella stanza dove si svolge il dramma. Celata dietro l’apparenza di una innocente e realistica commedia, mano a mano il testo offre uno scenario diverso in cui, attraverso l’uso del linguaggio, emerge tutta la drammaticità dell’incomunicabilità fra i personaggi. Nei fitti dialoghi, carichi di ambiguità, di pause e di silenzi, si scorgono tratti del teatro beckettiano, così come si percepisce l’anticipazione di tanta parte della più recente produzione drammaturgica.
Pippo di Marca, “uno dei migliori registi teatrali della sua/mia generazione, ma un raffinato teorico, veramente metateatrale, della scena contemporanea”, come scriveva Renato Nicolini, ha trattato il testo con uno sguardo indagatore, da filologo, scavando nel senso delle parole come un archeologo, fino a svelare la condensa di oscurità e di nevrosi che investe i personaggi, incapaci di condividere un ricordo in maniera oggettiva. Ma come scrive Di Marca nelle note di regia “Il teatro, purtroppo, o per fortuna, è anche altro: è corpo. Il corpo in cui ogni volta si incarna la parola. La fa diventare gesto, musica, “visione” dal vivo, passione, sentimento, azione, delirio, finzione ecc… I corpi, le “persone”, inprescindibili, dei tre validi interpreti, Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio. Partecipi, sensibili, appassionati, compresi, in una “sfida” certamente non facile.”
Note di regia
In “Vecchi Tempi” ci sono tre personaggi: una coppia londinese sui quarant’anni, Deeley e Kate; e una vecchia amica di quest’ultima, Anna, anch’essa sui quaranta, che è stata lontana per oltre vent’anni dell’amica di gioventù, e dall’Inghilterra, e che ora viene a far visita a Kate e al di lei marito.
All’apparenza una commedia: un vacuo e “nostalgico” incontro durante il quale “ricordare” i Vecchi Tempi. Così, più o meno, viene comunemente rappresentata: almeno in Italia, e per la mia esperienza di spettatore.
Pinter è un autore non facile, ambiguo, anche “astuto”: utilizza il linguaggio corrente caricandolo di ambiguità, di pause, di silenzi, con cui spesso crea effetti di surrealtà. Viene dopo Beckett e il teatro dell’assurdo e ne subisce in parte l’influenza.
Si muove, dunque, solo in apparenza, su un terreno naturalistico, realistico (anche se, beninteso, c’è pure questo).
Qui, in “Vecchi Tempi”, mi pare che questo climax sia presente forse più che in altri testi.
É pieno di pause, di lunghi silenzi, di lapsus, in un’altalena di scene “al presente” montate a ridosso di scene “al passato”, come fossero flash-back da sceneggiatura cinematografica.
E non a caso: Pinter è stato anche un ottimo sceneggiatore.
Tutto ciò, peraltro, impone inevitabili acrobazie a teatro, dove gli attori sono “condannati” all’hic et nunc!
Fatto sta, comunque, che nessuno dei personaggi ha una “memoria” oggettiva del proprio passato; ciò che ciascuno di essi ricorda è molto soggettivo e diverso dal ricordo degli altri. Niente, o quasi, coincide. Sono loro ad esser gravemente smemorati, malati o disturbati nel ricordo? Oppure è il tempo che è in sé bugiardo, inaffidabile? Oppure la nevrosi dell’uomo contemporaneo rappresentata, incapace di esprimere una qualsivoglia certezza, irretita com’è in una dimensione sentimentale falsa, una sorta di ipocrisia atavica?
Oppure, ancora – e questo sembra l’interrogativo più intrinseco al testo – è proprio il linguaggio che è inadeguato a raccontarci la realtà, il tempo, le ragioni profonde di qualunque storia, persino della Storia?
Tutti questi interrogativi (e certamente anche altri) sono sottesi al testo. Ma, ovviamente, non hanno e non devono, o non possono, avere una risposta.
Perché, in fondo, si tratta di “arte”, di teatro, di un’opera di drammaturgia, che, come sia, ci “racconta” una storia; per ambigua e assurda che possa essere.
Per cui è sull’opera, sulle parole, (pause e didascalie comprese), che mi sono concentrato. Rispettandole fino all’ultima virgola: il che, detto da me, è quasi un controsenso.
Il testo, anche in quanto “storia”, l’ho affrontato con uno sguardo direi da filologo, o da archeologo, e dunque “scavando”.
Scavando scavando, con la collaborazione degli attori, è venuto fuori che la commedia si tinge di dramma; e forse è qualcosa di più: una specie di delirio, una sorta di piccolo “inferno”.
Al di sotto delle apparenze e delle “conversazioni”, più o meno accese o pausate, emerge un climax vagamente “noir”, di oscurità, di foschie, di nevrosi, di incomunicabilità, e su tutto soffia, specialmente nel finale, un alone di morte.
Il personaggio che porta con sé questo alone è Kate. Parla poco, è chiusa in se stessa e alla fine sembra spalancare una specie di abisso domestico in cui tutti e tutto smenbrano sprofondare.
Per queste ragioni, ho sentito la necessità di inserire, all’inizio e alla fine dello spettacolo, le didascalie indicate nel testo: perché ne costituiscono la perfetta cornice “drammaturgica”.
E sembra addirittura ci dicano che i personaggi, “immobili”, chiusi in quella stanza, quasi fosse il sarcofago dei loro ricordi e delle loro vite, da lì non usciranno più.
Tutto ciò che avete letto, per quanto eventualmente interessante, sono “parole”; forse non meno false, o fittizie o ambigue, delle parole del testo.
Il teatro, purtroppo, o per fortuna, è anche altro: è corpo. Il corpo in cui ogni volta si incarna la parola. La fa diventare gesto, musica, “visione” dal vivo, passione, sentimento, azione, delirio, finzione ecc…
I corpi, le “persone”, imprescindibili, dei tre validi interpreti, Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio. Partecipi, sensibili, appassionati, compresi, in una “sfida” certamente non facile.
VECCHI TEMPI di Harold Pinter – traduzione Alessandra Serra regia – Pippo Di Marca – protagonisti : Deeley – Fabrizio Croci
Kate – Francesca Fava Anna – Anna Paola Vellaccio
scene e costumi – Laboratorio Florian Metateatro – assistente alla regia – Diletta Buschi – direttrice di scena – Marilisa D’Amico – luci – Renato Barattucci – registrazioni audio – Globster – grafica – AltraStella – organizzazione – Ilaria Palmisano – produzione – Massimo Vellaccio – cura – Giulia Basel
Teatro
Piazza Bartolomeo Romano 8, 00154 Roma – Ingresso: Intero €15 – Ridotto €10 – €5 studenti