Lezione tenuta il 18 marzo al Corso di aggiornamento per giornalisti su Comunicazione e sicurezza, organizzato per il Comune di Roma da Theores, Scuola superiore di lavoro sociale, in collaborazione con l’Associazione Stampa romana e Il Redattore Sociale
Una frase che amavo ripetere una ventina di anni fa, cercando di rendere nel linguaggio comune una questione che il femminismo affrontava con gli strumenti della teoria, è che “le donne” stanno in un solo elenco, quello con due {items}: le donne e gli uomini. Qualunque altro elenco in cui spesso compaiono è viziato in partenza, anche quello che dà il titolo a questa giornata: dicendo giovani e donne introduco infatti accanto al sesso/genere, che definisce il secondo termine, il carattere “età” che definisce il primo. Ma in questa elencazione{{ le donne giovani dove stanno?}} Lo stesso accade parlando di immigrazione: nella popolazione migrante, come nella popolazione nativa (o indigena) ci sono donne e uomini, e questo dato elementare non cambia se anche si isola uno spezzone della popolazione migrante, per esempio per età: ci saranno bambini e bambine, ragazze e ragazzi, giovani (qui il plurale non ha una distinzione per genere), adulti e adulte, anziane e anziani, vecchie e vecchi.
Parlare quindi di donne alla fine di un ciclo sui temi della sicurezza può essere l’occasione non solo per affrontare il tema specifico, ma anche per introdurre un elemento di problematicità ulteriore nei temi che sono stati già affrontati.
Imposterò questa lezione seguendo un percorso induttivo, cioè dall’esposizione e dalla valutazione di singoli episodi passerò alla proposta di un approccio teorico utile per vedere meglio i fenomeni di cui si intende parlare, su cui si intende riferire.

Ovviamente {{il titolo “sbatti il mostro in prima pagina”,}} riferito alla donne richiede una puntualizzazione. Se si fa eccezione per un numero abbastanza esiguo di donne, appartenenti soprattutto a due tipologie, le madri assassine, che hanno recentemente occupato la ribalta in molti programmi televisivi o interi dossier nella carta stampata e nell’informazione on line, o, andando un po’ più indietro nel tempo, le {dark lady}, che spingevano l’amante a uccidere il marito, o più raramente provvedevano a eliminarlo direttamente, le donne sono sulle prime pagine dei giornali soprattutto come vittime. Vittime di che cosa? Di una violenza prevalentemente agita dai maschi.

Fra i tanti episodi, ne vorrei isolare due mettendoli a confronto: {{lo stupro di Marinella}}, in piazza dei Massimi, a Roma nel 1988; {{l’assassinio di Giovanna Reggiani}}, novembre 2007.
Non parlerò di un altro episodio criminoso, di cui avete sentito certamente parlare, se non altro perché uno degli autori ha commesso lo stesso reato trent’anni dopo, cioè il Massacro del Circeo del 1975. Non ne parlerò perché ci porta parzialmente fuori strada, non rientra infatti né nel capitolo “sicurezza urbana” né in quello “violenza domestica” di cui parlerò fra poco.

Vorrei mettere l’accento sulla {{diversa trattazione mediatica dei due episodi,}} solo in parte spiegabile con la diversità del contesto storico culturale, del quadro legislativo, della stessa dinamica dell’evento.

{{Nel primo}} colpisce il pesante giudizio di disvalore sulla vittima. Accomunandola in questo caso alle vittime del Circeo. Non era ancora stata approvata la legge sulla violenza sessuale (bisogna arrivare al 1996), che ha spostato il reato da quelli contro la morale a quelli contro la persona. Nell’opinione corrente c’era l’idea che una donna violentata se l’era andata a cercare, o accettando un invito da sconosciuti (Donatella e Rosaria – nel caso del Circeo – avevano accettato un invito a una festa da tre giovani “pariolini”) o girando da sola di notte in zone poco raccomandabili (Marinella, anche se piazza dei Massimi è accanto a piazza Navona).

I violentatori di {{Marinella}} furono colti in flagrante da un carabiniere, erano tre giovani, provenienti da un quartiere della periferia romana. Lei li denunciò: il reato di violenza carnale, questo era il nome, era perseguibile su querela di parte.
Questo sarebbe stato successivamente uno degli aspetti più delicati e problematici dell’itinerario legislativo che portò alla formulazione di una legge. La raccolta delle firme per la legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale è del 1979: ci vogliono 5 legislature (non 25 anni, perché è il periodo delle legislature brevi) per arrivare alla legge n. 66 del 15 febbraio 1996.
Nonostante la testimonianza del carabiniere, Marinella vide messa in dubbio la sua versione dei fatti: al processo, in primo grado, gli stupratori furono condannati, in secondo grado furono loro riconosciute un mucchio di attenuanti e, a novembre 1988 gli stupratori uscirono liberi. La principale delle attenuanti era stata che Marinella soffriva di depressione e che quindi lo stato di sconvolgimento della sua vita e della sua psiche successivo allo stupro, partendo da una situazione già sconvolta, era tutto sommato trascurabile. Marinella morì di polmonite un mese dopo.

La stampa registrò, accanto alla mobilitazione del movimento delle donne, {{la levata di scudi di parenti e amici degli stupratori, le loro madri in prima fila,}} che accusavano la donna di “rovinare i loro figli”. Prevalse comunque la solidarietà con la vittima, violata prima dallo stupro e poi dal clamore che la sua vicenda aveva suscitato.
Ai nostri occhi è interessante notare come quasi nessuno mise in discussione la sicurezza urbana, il fatto che in una piazza a pochi passi dal centro più centro di Roma,all’una di notte, fosse possibile una cosa simile. Quasi nessuno, perché le donne magistrato della procura di Roma chiesero al sindaco di garantire la vivibilità della città anche di notte.

{{Giovanna Reggiani}} aveva 47 anni (Marinella ne aveva 30). Non era l’una di una notte di primavera, ma un tardo pomeriggio di ottobre, 17 anni dopo. Non in centro, ma in una periferia che sarebbe difficile descrivere a chi non conosce Roma, la solita Roma cresciuta a macchie di leopardo dove da un quartiere residenziale a un altro può capitare di dover attraversare zone desolate, o, peggio ancora, dove uscendo dalla stazione di un servizio pubblico, si deve percorrere prima di arrivare a casa un sentiero buio. Giovanna viene gettata in un fossato dopo un’aggressione, non è chiaro se è stata violentata o solo (si fa per dire) aggredita a scopo di rapina, e muore all’ospedale.

Non è soltanto perché è una donna borghese, moglie di un ufficiale, che torna a casa in un’ora “normale”, mentre Marinella era una giovane inquieta, che, di notte, stava andando dal suo ragazzo, che la stampa riserva alle due vittime un trattamento completamente diverso.
I tre stupratori di Marinella erano giovani romani “normali”: non avevano le caratteristiche del mostro da sbattere in prima pagina. Sulla prima pagina ci finirono certamente, ma non come l’aggressore uccisore di Giovanna: era un rumeno, forse un rom, un immigrato, sicuramente extracomunitario e clandestino. C’è voluto più di un momento di riflessione per mettere a fuoco che extracomunitario non era e tanto meno clandestino.

{{Cos’è successo nel frattempo?}} La cosa più rilevante di quel periodo è stato il fenomeno migratorio, questa presenza di donne e uomini nelle nostre strade e nelle nostre case, a cui da un certo momento in poi è stato facile attribuire il ruolo di capro espiatorio (ne avete sicuramente parlato nella lezione precedente). Qui a me interessa solo un aspetto del problema (che è emerso a poco a poco): la costruzione di politiche di sicurezza basate su due stereotipi: lo straniero pericoloso e la donna vittima. Di questa operazione, che vede un intreccio forte fra scelte politiche e comportamenti degli organi di informazione, il caso Giovanna Reggiani è l’esempio se non più clamoroso, più recente, e certamente quello in cui i nessi sono più chiari.

A Firenze c’era stato un episodio di poco precedente, messo nel dimenticatoio perché soverchiato dalla gravità di quello accaduto a Roma. La circolare antilavavetri, giustificata nelle dichiarazioni dei politici locali riportare dalla stampa, con la motivazione che le donne al volante venivano importunate. Del resto la frase “le nostre donne” pronunciata in contesti in cui gli uomini (italiani) le vedono in pericolo e le vogliono difendere da altri uomini (stranieri) è stata pronunciata persino da un vescovo…
Vedremo dopo come il luogo più insicuro per le donne sia la casa e non la strada. Ma per adesso rimaniamo per la strada.

{{Il fenomeno migratorio induce anche gli uomini a sentirsi insicuri}}. Non che siano aumentati significativamente gli indici di criminalità, ma è certamente aumentata l’insicurezza nella vita delle persone. E mentre le donne hanno sempre saputo che l’andare per strada, da sole o con altre donne, richiedeva strategie di adattamento, per gli uomini il pensiero di poter essere vittime di un’aggressione ha avuto come conseguenza l’inserimento del problema nell’agenda politica.
Nel 1988 sotto {{la voce “sicurezza in ambito urbano”}} si può ancora trovare su “Google”, fra i primi, un documento relativo all’amianto nella città di Milano. Pochi anni dopo il termine passa a significare soprattutto la difesa delle persone e dei loro beni rispetto alla criminalità diffusa. Ripeto, non perché fosse più diffusa di prima, ma perché era cambiata la percezione.
D’altro canto il termine sicurezza urbana tende a sostituire (non completamente) il termine ordine pubblico: quest’ultimo visto come qualcosa di cui è responsabile lo stato centrale e i suoi organi periferici, la prima invece come qualcosa di competenza delle istituzioni locali, con il coinvolgimento dei cittadini.

Io non condivido l’affermazione secondo cui la domanda di sicurezza non è di destra né di sinistra, ma non intendo discuterne adesso. Ciò di cui invece sono certa è che {{la questione sicurezza è una questione di genere, che si pone in modo diverso per gli uomini e per le donne}}.

{{Nel 2003}} a Roma, si è svolto {{un convegno}} dal titolo {Gendered cities: identities, activities, networks – a life-course approach} ({Città di genere: identità, attività, reti – un approccio che segue il corso della vita}), i cui atti sono stati pubblicati nel 2006 in un volume dal titolo {La città delle donne. Un approccio di genere alla geografia urbana.}
In uno dei saggi che lo compongono trovo una distinzione che mi sembra interessante fra {security} e {safety}, tradotti rispettivamente con protezione e sicurezza. Le politiche di protezione ({security}) implicano procedure di controllo, identificazione dell’elemento estraneo, potenzialmente deviante. Sono un mix di sistemi di tele-sorveglianza, recinzioni e lucchetti, controllo sociale con vigilanti , e semplici cittadini a supporto delle forze dell’ordine. Le politiche di sicurezza ({safety}) dovrebbero invece tener conto che la presenza di sconosciuti e la diversità sono ciò che rende interessante la vita nelle città. Quante più persone si riverseranno nelle strade tanto più sicura sarà la città.
Inserisco un aneddoto personale: ho insegnato per alcuni anni, negli anni ’70, nel quartiere da cui provenivano gli stupratori di Marinella. Una volta un collega mi disse che quel quartiere poco sicuro di notte (e deserto) cambiava faccia la notte di natale e quella di pasqua, quando le strade si riempivano di coloro che andavano a messa. Del resto, chi era giovane negli anni ’70, ricorda cosa cambiò con la mitica estate romana.

Ma torniamo alla {{distinzione fra protezione e sicurezza}}. Che cosa ha a che fare con le donne?
Le politiche di protezione tendono a chiudere le persone in luoghi controllati, in casa.
Ma, ed è il discorso che approfondiremo fra poco, la maggior parte delle donne che subiscono violenza la subiscono in casa, ad opera di persone che conoscono. Però la paura di subire violenza le tiene in casa. In questo modo si limita la loro partecipazione alla vita della città, si uccide la vita della città. Politiche di sicurezza basate invece sul principio che uscendo di casa, si rende la città più sicura e si è più sicure, richiedono interventi sull’offerta culturale, flessibilità nei servizi pubblici di trasporto, prima ancora scelte urbanistiche adeguate. E’ facile l’osservazione che le donne sono di solito la maggioranza fra chi fruisce delle offerte culturali, dal cinema alle mostre d’arte, ma sono anche quelle che utilizzano maggiormente i mezzi pubblici.
Non è una gestione paternalistica e protettiva nei confronti delle donne a rendere migliore e più vivibile la città, ma un’impostazione che esalta la mobilità delle persone e la rende più agevole.
Non è una banalità dire che la morte di Giovanna Reggiani si sarebbe potuta probabilmente evitare, non chiudendo le frontiere o aumentando le videocamere, ma illuminando meglio quella strada. E trovando per i nuovi cittadini, comunitari ed estracomunitari, forme di accoglienza, anche in questo caso, non paternalistiche o protettive, ma adatte a costruire percorsi di cittadinanza.

Ultimo punto: {{se sulla strada le donne che “vogliono andare dappertutto” sfidano il pericolo, rappresentato soprattutto dagli uomini, in casa il pericolo si nasconde dome meno uno se lo aspetterebbe}}. Si fa per dire. Ormai i dati parlano in maniera assordante.
Da un po’ di tempo è invalso l’uso di un termine nuovo, di un notevole impatto emotivo: Femminicidio. E’ un termine diventato relativamente popolare in relazione alle morti di Ciudad Juarez, città sul confine fra USA e Messico. In poco più di 10 anni in una città di 1.500.000 abitanti, circa 500 ragazze sono state sequestrate, violentate, torturate e uccise e altrettante sono scomparse e si pensa che abbiano fatto la stessa fine. Il fenomeno sul quale le interpretazioni sono tante, ma nessuna è servita a fermare la strage, ha portato una diva di Hollyvood come Jennifer Lopez a produrre un film di denuncia.
Il termine, probabilmente nato per indicare un fenomeno che aveva una chiara caratteristica di genere e a cui quindi il termine neutro maschile di omicidio sembrava poco adatto, è poi stato esteso prima ai casi in cui l’assassinio di una donna appare motivato dal suo essere donna, dalla relazione che la lega all’uomo, poi, ma qui l’uso è ancora incerto, più in generale a tutti i casi di violenza degli uomini sulle donne.

La lezione si è conclusa citando ampi stralci di una ricerca rintracciabile all’indirizzo:

[www.casadonne.it/FEMMINICIDI-IN-ITALIA-NEL-2006-karadole.pdf->www.casadonne.it/FEMMINICIDI-IN-ITALIA-NEL-2006-karadole.pdf]