Scrivere con l’inchiostro bianco. Intervista a Maria Rosa Cutrufelli
È possibile per una scrittrice diventare soggetto del proprio immaginario all’interno di una cultura fondata sulla glorificazione del patriarcato? Ne parliamo con Maria Rosa Cutrufelli, autrice di saggi, romanzi e racconti in cui le donne sono protagoniste.
Nel tuo saggio, Scrivere con l’inchiostro bianco, da poco uscito per Iacobelli, racconti di come hai deciso di seguire l’ambizione di scrittrice mandando all’aria i piani che la tua famiglia aveva per te, sognandoti iscritta alla facoltà di medicina. Qual è stato il momento più difficile nell’affermare questa scelta?
Penso che il momento più difficile sia stato quello dell’autoaffermazione, quello in cui ho dovuto capire se questa era una passione che poteva diventare non solo di lettrice ma proprio di scrittrice. Perché quando ti cimenti con la scrittura, soprattutto in un’epoca di cambiamenti per le donne molto profondi, come quella in cui sono cresciuta io, sei costretta a misurarti con una serie di interrogativi. E io mentre coltivavo la mia ambizione mi interrogavo su quale fosse il mio posto all’interno di una tradizione, su quale potesse essere il posto delle donne all’interno del canone letterario. Una serie di domande che in qualche modo complicavano la mia ambizione. Non perché l’affrontassi in modo ideologico, ma al contrario perché mi chiedevo se non ci fosse una camicia di forza sociale, culturale, a trattenere la mia scrittura, a impedire che fosse realmente mia, a imporre un adeguamento a un qualcosa che mi faceva deviare dall’obiettivo che mi ero prefissa, quello di cercare la mia voce. E, però, qual era la voce di una donna all’interno di una cultura da millenni dominata dalle voci maschili? Le voci maschili sono un coro potente. Le voci femminili sono piccole, deboli, fanno fatica a raggiungere le altre donne e il mondo in generale. Sono fiammelle che non fanno luce, inascoltate, e quando vengono ascoltate è per un’eccezione, per un incidente della storia. Ecco, allora, mi dicevo: rispetto a tutto questo come posso parlare di una voce mia che non sia un adeguarsi? Come posso “decolonizzare la mente” per parlare con una voce mia?
Perché secondo te ancora oggi molte scrittrici si trovano a fare i conti con quello che nel racconto del tuo percorso definisci un “peccato d’orgoglio”?
Nel primissimo femminismo parlavamo di liberazione, negli anni ‘80 abbiamo parlato di libertà, forse in maniera prematura? Perché penso che tutto il discorso più profondo sull’immaginario, oltre che sull’immaginazione, sia un territorio ancora oscuro, non toccato dalla decolonizzazione. È questo a legare le donne: cosa significa dover affrontare un immaginario fondato su miti ancestrali che raccontano e glorificano l’ascesa del patriarcato. Pensiamo ai miti greci, ai miti della romanità, su cui la cultura occidentale poi si è fondata. Come possiamo liberare l’immaginario prese all’interno della nostra stessa cultura, in questa glorificazione che ancora non ha un controcanto? È quello che dice Ursula Le Guin, non abbiamo ancora raccontato la vita nuova, siamo ancora soggette all’Eroe, classico e tradizionale, che è per sua natura imperialista. Certo, finalmente siamo diventate soggetto di scrittura, non siamo più solo muse ispiratrici, l’oggetto della scrittura maschile. Questa liberazione c’è stata. Non c’è ancora però la libertà del proprio immaginario, non siamo soggetti della nostra propria immaginazione. Perché non abbiamo costruito quello che Audre Lorde diceva, veri e propri miti. Nuovi modi di affrontare la narrazione, il racconto della vita. E come dice Ursula Le Guin, se non affronti un nuovo modo di narrare la vita, sarai sempre soggetta a un altro immaginario e non diventerai soggetto del tuo proprio. E io francamente non so come si faccia, né se sia qualcosa di realmente possibile, o soltanto un anelito. Questo non lo so. È una domanda che faccio a me stessa e che faccio alle altre donne che hanno l’ambizione di narrare.
A un certo punto scrivi che la domanda che spesso anima i dibattiti pubblici contemporanei, se esista una scrittura “femminile” diversa se non contrapposta a quella “maschile”, ti provoca una specie di allergia. Effettivamente è una domanda fastidiosa, tu come rispondi quando te la fanno?
Non è una domanda a cui si può rispondere con un sì o con un no. La devi argomentare. E io la argomento così: femminile e maschile sono degli aggettivi qualificativi, cioè indicano delle qualità. Queste qualità sono variabili nel tempo e nello spazio, valgono per noi e non per altri popoli, valgono oggi e non domani, oppure non erano valide ieri. Quindi non significano niente in un sistema assoluto. Ciò che è femminile oggi può non esserlo domani, non lo era ieri, e così per il maschile. Per fare un esempio, per l’eroe romantico il pianto era un obbligo, oggi si dice “piangi come una femminuccia”. È una domanda allora insensata. Come insensato è accostare, a livello editoriale, l’aggettivo femminile alla letteratura ritenuta “sentimentale”. Molto diverso è invece parlare di scrittura delle donne, questo rimanda al soggetto, al corpo. Essere una donna, un uomo, significa avere un corpo e questo corpo porta inevitabilmente nel racconto il suo punto di vista. La mano di chi scrive non è mai una mano neutra: ha un sesso, una classe, una razza. È una mano che si porta dietro una storia, che è la storia di chi scrive. E che lo voglia o meno, chi scrive è influenzato in quello che scrive dal suo essere bianco o nero, ricco o povero, uomo o donna.
Nel corso della tua carriera hai scritto moltissimo, saggi, racconti, romanzi, sei stata candidata al Premio Strega (con La donna che visse per un sogno). È capitato che la stampa definisse la tua letteratura “femminile”? Come ti ha fatto sentire?
Per quanto ne sappia mi è successo una sola volta, ma è una definizione che spesso la stampa usa a sproposito per i racconti in cui a parlare sono le donne. Come se quello che dicono le donne automaticamente dia un colorito femminile al racconto, nel senso di “rosa”, di “secondario”. Provo molta pena per questo modo di pensare che è vecchio anche quando chi scrive è un giovane, perché indica un’incapacità di guardare oltre gli stereotipi. E certo, quando succede, provi rabbia per il fatto di non essere capita. A questo proposito vorrei lanciare un appello alle Librerie Feltrinelli che hanno il banco della “letteratura femminile”. Se non vogliono chiamarla “rosa”, la chiamino “letteratura sentimentale”, “romanzi d’amore”. Ma “letteratura femminile” è qualcosa che non rende giustizia a ciò che le donne scrivono. Prego i direttori e le direttrici delle Librerie Feltrinelli di abolire questa definizione d’altri tempi e inadeguata, e di dare alle cose il loro nome.
Nel tuo saggio citi, tra le altre, Ursula Le Guin e Hélène Cixous, per sottolineare la spinta che autrici come queste hanno avuto nel trovare una narrazione nuova rispetto a quella tradizionale. Possiamo dire che nella storia della letteratura le donne hanno avuto un ruolo importante come innovatrici in questo senso? Perché?
Assolutamente. Perché siamo costrette, in qualche modo. Proprio perché tutte, consciamente o meno, anche quelle che lo negano, cerchiamo il nostro immaginario, lo cerchiamo nella nostra differenza. E quindi, in qualche modo, sei costretta ad essere innovatrice. Viene naturale.
E’ stato pubblicato anche sul sito di InGenere