Se Politica, Economia e Giustizia si nutrissero d’ Arte. Intervista di Manuela Gandini ad Alessandro Bergonzoni
— Seduto al bar Magenta, coda di cavallo argento, occhi buoni, volto scavato da un’immane quantità di parole – (parole/paesaggio, parole/forma, parole/gesto) – c’è Alessandro Bergonzoni. Nel suo ultimo spettacolo, “Trascendi e Sali”, per i primi minuti si vedono le gambe dal ginocchio in giù, solo quelle. Ancora una volta Bergonzoni sposta il punto di vista, spiazzandosi e spiazzandoci, perché si presenta su un trabattello che ne nasconde in parte il corpo. Parla e parla, quando scenderà? Di lui giunge solo la voce. L’incontro tra realtà e parola, tra coscienza e arte, tra me e lui, tra lui e un padre, tra realtà e fiction, è il tema questa conversazione della quale riporto alcuni spezzoni.
Il palco esistenziale di Bergonzoni è ampio, appartiene alla vastità. Le sue performance – a teatro, al museo, in strada, al bar – sono sempre accompagnate da attori visibili ma immobili (scenografie) o invisibili e dinamici (spiriti e spiritelli), animati e menomati, in forma di disegno, scultura, installazione oppure incarnati nel suono inconfondibile della sua voce corporea. Le opere/installazioni, profondamente sovra-umanistiche, hanno spesso a che vedere con il contesto, con la realtà circostante e con la profondità del nostro essere e del nostro ignorare. Affondano in quella che viene sbrigativamente liquidata come cronaca o attualità ma che invece contiene innumerevoli vite, storie e destini incrociati.
Ed ecco che Bergonzoni è là, nel solco tracciato da Joseph Beuys, mentre tesse visioni che intrecciano politica giustizia sanità economia con l’arte e la poesia in relazione agli altri regni della terra.
Dall’arte alla realtà? Cos’è reale e cosa fake? Al convegno su Joyce a Dublino abbiamo discusso a il concetto di verità, che ho ribattezzato “cadaverità”. La cadaverità è la verità morta, è la vera morte, è la morte della verità. Il tema si lega a me e al lavoro sul corpo della parola scolpita ancor prima dell’azione. Mi parte dall’abbinamento tra simbolo e concretezza, dall’idea che sta tra verità e invenzione. Se con cadaverità si crede che la parola abbia voluto giocare sul senso, che sia vero che c’è un morto in questo momento anche se io e te non lo vediamo, in questo attimo comunque c’è morte, e la verità sembra nascosta.
“Tutela dei beni: Corpi nel (c)reato ad arte (il valore di un’opera in persona)” è una performance museale. E’ stata sin ora realizzata alla Pinacoteca di Bologna e di Brera, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, alla Galleria Estense di Modena e agli Uffizi a Firenze.
La tua presenza ancora una volta spiazzante – perché di spalle e perché attraverso l’oralità della parola antica e delle nuove relazioni di senso – è sullo sfondo di una grande macchia. Una macchia che cambia di intensità e rimane indelebilmente impressa nel nostro paese e nella nostra psiche. Una macchia a lento rilascio che rivela l’identità di un uomo, che come ogni essere umano è (dovrebbe essere) concepito come opera d’arte ma che è stato trattato dalle istituzioni come rifiuto da espellere. A Firenze hai dichiarato: “Dopo il Rinascimento fonderemo un nuovo movimento artistico: Il Risarcimento”. Cosa fa allora Bergonzoni?
Possiamo e dobbiamo restituire l’energia che avevamo, per noi e per l’altro. Occorre andare oltre l’umanesimo, che non serve più, non basta ancora. Si tratta di un sovraumanesimo vero e proprio nato per risarcire le vite tolte, la storia uccisa, l’esistenza violata, i corpi offesi. Ci costituiremo sia arte civile che arte lesa, che scolpisce le sue statue a colpi di pistola. Guardo ciò che viene sempre letto come cronaca, addirittura attualità, come tema politico o di giustizia o tema di violazione dei diritti, quindi civico. Quando muore un ragazzo occorre legare il tema di quel reality, di quella realtà, legare il tema della tutela di un quadro, Cimabue e Giotto come ho fatto agli Uffizi, a quello umano. Bisogna tutelare la visione, l’idea di un viso, un corpo che dovrebbe essere valorizzato preservato, come con la temperatura di un museo, i gradi, la luce. Come i quadri che vengono protetti e difesi al massimo per non offendere l’arte, che è di tutti e di tutto.
Quale richiamo può essere più forte per i legami di uno Stato? Non il ministero dei beni culturali, ma il ministero di giustizia e degli interni, della salute e dell’istruzione, a tutela delle opere che ha al suo interno, in una galera, in un posto di polizia, dove queste opere d’arte (le persone arrestate) tendenzialmente come entrano dovrebbero uscire. Cosa è realtà? E’ stato provato il fatto che questa persona sia stata “fatta fuori” dal corpo dello stato. Ci sono le telecamere nei musei ma non nei luoghi di polizia. Oppure – nel caso di Franco Mastrogiovanni – le 84 ore del film di questa agonia, di questa persona che muore di stenti, muore di non-cibo e di non-acqua, la telecamera è stata messa quasi come un reality e fa vedere quanta mancanza di bellezza, di poesia e di arte (oltre che diritti inalienabili) hanno avuto colore che dovevano tutelare. Io parto da tutti questi fatti che sono apparentemente reali e cronachistici, dai quali muovo una mia azione che richiede a me il corpo, il silenzio e la “presa di posizione”. Quando un’idea prende corpo e quando un uomo prende posizione, acquista lui stesso una postura interna ed esterna che si mette in collegamento, in vibrazione, in onda, con quello che vuole rappresentare.
Nel tuo lavoro ricorrono il tema della morte, della funzione dell’arte e della comprensione.
Nel mio spettacolo propongo di fare un gruppo di adozione di genitori. Non adottare il figlio di qualcuno che è morto, ma adottare il genitore che ha perso un figlio. Vado da questo padre e cerco, con shock pre-traumatico, di cominciare a sentire la mancanza che lui sta vivendo. Questo confine “nonfine” segna il prendere posizione e prendere corpo. Ciò significa che hai molto più spazio per avvicinare l’altro. Non solo con la pietas, la tenerezza, la condivisione, ma la compenetrazione. Si potrebbe mettere un’inserzione sul giornale “genitore adottivo offresi” per andare nella camera del figlio che non c’è più e mettere via i suoi vestiti. Io sono padre.
Come si esplica questa intenzione empatica nella realtà?
Vorrei tradurre questa azione teorica. Ci sono vedove e orfani, ma qual è la definizione del padre che ha perduto un figlio? Nessuno ha dato un nome al padre che perde un figlio (più volte ormai l’ ho definito). Io sono il padre che perde il figlio e vengo da te, ogni padre che perde un figlio sono io. E’ un’incarnazione artistica, doverosa quasi, e mi verrebbe da dire connaturata. Se l’idea del reale deve diventare quello che per me rappresenta l ‘ “esistente”, vedo mio figlio e vedo la storia di un padre che perde un figlio, allora realmente comincio a fare una specie di connubio, compio un’unione sembiante – che potrebbe essere interpretata dal punto di vista psicanalitico – come relazione con la perdita, ma mi interessa menoSei testimonial della Casa dei Risvegli di Bologna dove sono ricoverate le persone in coma, vai nelle carceri e negli ospedali a parlare con detenuti e pazienti. Anni fa, poco prima che morisse, hai portato all’Università la Bicocca di Milano, Giampiero Steccato, un uomo affetto dalla sindrome di Locked-in, che significa “sepolto nel proprio corpo”. Steccato, nonostante la costrizione all’immobilità totale, ha lottato sino all’ultimo. L’arte è per te il campo di battaglia della realtà?
Io parto da questi luoghi. Vado lì. Invitai Giampiero Steccato, che muoveva solo un mignolo e la palpebra, all’università di medicina e in più atenei. Quella vita mi porterà poi a realizzare un progetto che ho da tempo: un incontro con un carcerato uscito di galera dopo avere scontato la sua clausura e che voleva incontrare una persona uscita dal coma o da quella chiusura. Mi diceva: vorrei incontrare chi è stato chiuso dentro per motivi di danno e delinquenza come me e chi è stato chiuso dentro per motivi di salute, si è svegliato ed è uscito dal coma. Vorrei analizzare il tema della pena e del rispetto che la gente ha per chi s’è salvato la salute e chi invece è uscito dopo aver ucciso, rubato o spacciato, senza aver nulla di cui gioire. Quindi comunque sei fuori ma non c’è plauso, non c’è amore, mentre se una persona esce dal coma le commozioni sono forti. Allora tutto questo è reality. C’è un ponte che mi fa andare avanti e indietro tra realtà e irrealtà. C’è una lotta corpo a corpo che mi porta a dire facciamo l’impossibile. L’incredibile è il mio pennello, è la mia penna in questo momento, c’è una terra di nessuno, una “no men land” dove comunque non è impossibile creare anche arte. Cosa c’entra Aldovrandi e un genitore che piange un ragazzo ucciso dalle forze dell’ordine con un’opera d’arte? Il grande problema è appunto la mancanza d’arte, la mancanza di bellezza già avvenute in azioni che mancavano di questo collegamento costante, non senza entrare nelle decisioni politiche del doveroso “capolavorare” quotidiano. Parto da questi reality, da queste necessità, e poi viaggio continuando a fare la spola tra la realtà e le infinite possibilità delle realtà.
Qual è l’estensione sociale del tuo lavoro?
L’estensione sociale viene quasi additata come un cambio di passo. Mi viene detto che io, che non ero mai stato politico, lo sono diventato. La gente usa gli strumenti che ha nella propria officina, non riesce a pensare che il tema politico non può più esimere dal tema poetico, perché chi sconta una pena di vent’anni in una cella di 4 x 4 per 12 detenuti ha a che fare con tutto: l’architettura, il colore, il design, lo spazio lo spirito, l’anima e non solo più l’amministrazione e le sue gestioni economico politiche. Quando vado ad allestire una mostra site-specific devo capire che posto è. Semplicemente cerco di vestire il sociale o di svelare, di rendere nuda la politica per far vedere quanta arte ci sarebbe, quanta pelle ha la politica ma non la usa, ne tocca solo alcune parti quelle burocratiche o legislative. L’economia è un gesto anche artistico perché se tu scomponi delle regole di import export, denaro e armi, stai compiendo un gesto che chiamo non l’atto materiale ma “l’atto materno”. Stai mettendo al mondo qualcosa che avrà di certo delle deformazioni. Devi studiare come stai generando. Sembra quasi che qualcuno che mette al mondo un’idea economica metaforicamente beva e fumi durante la gestazione (ed è risaputo che se una donna in cinta beve o fuma tutto il giorno creerà problemi al feto). I piloti d’aereo vengono controllati continuamente perché portano 150 passeggeri a volta, ma ci sono persone che portano milioni di passeggeri, che sono le nazioni, e non sono sottoposti ad alcun controllo psicologico comportamentale per verificare attitudini o capacità magari compromesse.
Come Donald Trump?
E noi cosa facciamo? Disegnamo la sua icona, i suoi capelli, il suo colore, il suo rosso, questi occhi questa figura, queste mani. Quasi lo iconizziamo. Se l’artista deve fare anche questa disanima va bene il mondo della caricatura. Il tema artistico chiede un altro spostamento, un diverso passo in altro.
Tratto spesso il tema della morte, è una costante. Da anni pensavo ad una istallazione chiamata “Monumento al cielo “e cioè una torre invisibile alta fino a chi, larga fino a quando e profonda fino a dove, per commemorare e ricordare, ma senza dover vedere un obelisco un muro o altro : tutto deve essere captato sentito vissuto non sempre solo guardato. Mi dico: ma la morte è reale o irreale? Noi vediamo questi bambini morire in spiaggia ma che cos’è reale? Cos’è virtuale? Se quei corpi non te li indossi non succede niente.
C’è una terza via sul tema di cosa possiamo fare per prendere corpo per fare prendere corpo a queste storie: cominciare noi con gesti quotidiani, dalla mattina alla sera, non avendo negli occhi ciò che abbiamo visto ma nel corpo ciò che è il loro movimento, e lo ripeto ormai ossessivamente. Quando noi ci laviamo sentire il loro odore, quando noi ci vestiamo sentire la loro nudità, quando afferriamo una sedia per spostarla afferrare la loro prensilità, quando s’aggrappano a qualcosa per dire “non mi lasciare”. In questo andare e venire dalla realtà e dalle realtà chiedo che ne venga fuori un’altra, di reality, che non è solo virtuale, che non sia solo delle proteste; io in piazza scenderò sempre finché la politica non risolve, ma c’è un’altra postazione metafisica poetica e artistica dalla quale lavorare: quella dell’attore di controllo. Devo cominciare a vedere tutto quello che posso rilevare captare. Ecco un lavoro grosso da fare. Da una mostra a un’altra, da un libro all’altro, da uno spettacolo all’altro.
Si tratta di responsabilizzare le persone?
La responsabilità non basta, dovrebbe essere natura. Se non c’è poetica non c’è etica. E se parlassimo anche d ‘amore e del suo intriso? È così impensabile? Quanta poetica ci può essere nella testa del corpo sociale che non legge un libro e si affida interamente ai social, ai commercial e ai talk show? Pompei c’era, i corpi c’erano. Io dico: “penso spesso, penso spesso”.Qualcuno può dire “ sottigliezze” invece no si tratta proprio di spessore. Noi abbiamo coperto le nostre capacità poetiche, sovrumane. Coperte totalmente, ma quando vengono fuori gli eroismi? cosa sono gli atti di eroismo? Quel francese algerino che ha salvato una ragazza da un incendio scalando tre piani di una casa. Dov’era sepolta questa poesia? E’ nato eroe? Che scuole ha fatto? Si tratta di disseppellire la poetica perché è speleologia, un ritrovato. Col ritrovato s’intende un’idea, una scoperta. Devi scoprire quello che tu hai coperto, scavando antecedentemente al crollo, appunto tra le”macerie prima”(titolo di una mia mostra del 2011) .Cosa diventa sociale? La politica ha lavorato di copertura, e lo continua a fare neanche tanto subdolamente. Distraiti, dice, ti costruisco tutta la materia che crea su di te uno spessore pneumatico per cui tu non ricordi e non vedi più niente di “vero”. Se avevi bontà (questo termine desueto e frusto a cui preferisco energia) sopra ti metto l’ambiguità mia , in tal maniera che anche la polvere (polveritá?) della mia mancanza copra la tua potenza. Cos’è l’atto eroico? L’uomo si butta e non pensa di morire, basta l’idea che noi e la natura possiamo congiungerci in bellezza per salvare.
Molti looked-in hanno detto “io sto bene così, sento l’aria sulla pelle, sento la voce dei miei nipoti, cosa posso volere di più dalla vita?”. Quello che voglio raccontare è che c’è una potenza artistica in corpi, in luoghi, in odori e situazioni che noi consideriamo indegni e invivibili. Allora, l’arte deve (secondo me), o comunque può, raccontare questo. Cerco di farlo da tempo anche con una mano di surrealtà e di mistero ì. Facendo appunto la spola. Non riesco a stare assolutamente nella vita reale nella paura di perdere un figlio, ma non riesco assolutamente nemmeno a stare soltanto nel mio ambito di scrittore, di poeta e di artista, in quell’ “l’attimo in cui”. Da lì devo “occorrere”, tornare immediatamente alla realtà. In queste condizioni – di riduzione ed estensione, alto basso, paura coraggio, sporco e pulito – sei a contatto costantemente con la morte viva degli altri, oltre ad accompagnarli per motivi nati sociali ma adesso passati ad essere anche ben altro. Quando nello spettacolo dico: se muoio tenetemi la mano ma buttate il resto, lì c’è la risata; ….. ti tengo soltanto una mano? per capire quanto pesa una mano la dovremmo staccare dal resto appunto per sapere per esempio la portata di una carezza anche mancata . Ecco cosa mi muove :cambiare la dimensione la visione. Per chiudere il tema di prima: un padre non può sopportare di perdere un figlio? Mi sposto, e dico “arrivo, siamo due”. O davvero dovrebbe morire mio figlio perché io connubi con te? Questa unione karmica universale può avvenire. Davvero devo avere un tumore per accompagnarti nella fase terminale? Io devo avere la stessa tua genetica o posso crearne una? Una genetica artistica poetica che è quella da dove io parto che è il” reality” fisica-chimica e ci cambia anche la pelle e tutto il resto (la grande meta: la metamorfosi). Compenetrazione. Tutto questo sta convergendo, come fosse un richiamo spazio-temporale pluridimensionale, sta arrivando all’unione delle cose, non più alla separazione. E qui credo esistano, e non solo, segreto e sacro. Perché continuare ad averne paura di tutto ciò, quando possiamo esserne universo?