«Con chi desideriamo stare in compagnia? Ho cercato di mostrarvi che le nostre decisioni sul bene e il male dipendono dalla scelta dei nostri compagni, di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni.»

E’ a partire da questa riflessione di Hannah Arendt che lo scorso 17 marzo la filosofa Stefania Tarantino ha tenuto a Napoli una lezione dal titolo «L’interpretazione di Hannah Arendt del sensus communis di Kant», nell’ambito delle iniziative del Café Philo, coordinato da Rita Felerico, quest’anno dedicato al rapporto tra etica e cittadinanza.

Ho ascoltato con passione la lectio di Stefania Tarantino e, da storica,  ho riflettuto sul fatto che la centralità di una comunità formata da individui capaci di esercitare un giudizio morale indipendente è al centro anche di alcune recenti ricerche, inserite nel filone dei cultural studies, relative a quella che è stata definita “l’invenzione” dei diritti umani.

Penso in particolare al saggio “La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo” (Laterza, 2010) di Lynn Hunt.  Affinché gli individui si sentano parte di una comunità politica dotata di autonomia morale – spiega Hunt – è necessario che siano in grado di provare reciproca empatia, è necessario che vedano l’altro come proprio simile, per arrivare a concepire un linguaggio dei diritti umani che, nella violazione di questi principi, individui qualcosa che è “di per sé evidente” e “non più tollerabile” . Secondo Hunt questa mutazione avviene in uno scenario – quello settecentesco – nel quale si registra una diversa sensibilità prodotta da nuove forme letterarie, da una nuova concezione dell’integrità del corpo, tali da influenzare non solo il giudizio sulla tortura e sulla schiavitù, ma anche la stesura della Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Mi è sembrato di trovare dei punti di contatto tra la riflessione di Kant e Arendt che Stefania ricostruisce puntualmente, e la visione empatica della comunità così come Hunt la interpreta.

Per questo ho fatto a Stefania alcune domande.

 

È possibile secondo te individuare nel sensus communis, nell’importanza ad esso riservata nella riflessione filosofica di Kant e di Arendt, un altro spunto di riflessione per capire l’affermazione del linguaggio dei diritti umani ?

Si, penso che ci sono dei rimandi possibili, anche se è necessario tenere ben presente che il sensus communis non si avvale del linguaggio giuridico e non rientra immediatamente nella dimensione dei diritti umani. Si tratta piuttosto di qualcosa che viene prima, vale a dire che per Kant il sensus communis è ciò che ci rende una comunità, che ci consente di comunicare tra noi ed è ciò che sta a fondamento del giudizio. Ora, come ben sottolinea la Arendt, per giudicare dobbiamo essere capaci di vedere il mondo tenendo conto del punto di vista dagli altri. In questo senso, penso che il riferimento all’empatia di Hunt, sia molto vicino a ciò che Arendt aveva a cuore del pensiero kantiano, e cioè il senso della pluralità umana che si oppone all’egoismo, al monismo della voce unica e che apre a un modo di pensare “ampio”, aperto, che ci rende cittadini/e del mondo. Il pensiero aperto ha per Kant una connotazione specificatamente politica perché significa in primo luogo la possibilità che ciascuno/a ha di pensare mettendosi al posto di qualunque altro/a.

La ricostruzione di Hunt individua nel nazionalismo, nel razzismo, nel socialismo, nel comunismo e nelle grandi guerre del Novecento dei fattori di rallentamento dell’affermazione del dibattito sui diritti umani. Quali sono gli elementi che possono mettere in crisi la condivisione del senso comune in una collettività?

La reductio ad unum è sempre stata il pericolo maggiore del sensus communis, così come la sussunzione della singolarità nell’universalità astratta. Due armi potentissime che sono riuscite e riescono tuttora ad atrofizzare e a disinnescare la nostra capacità naturale di distinguere il bene dal male. Per Arendt il vero problema sta nell’incapacità di pensare e di sentire l’altro/gli altri e tutto questo, come ben sappiamo, ha delle conseguenze fatali e tragiche. Ecco perché si sofferma sull’importanza della pluralità e della dimensione intersoggettiva in cui ciascuno/a è chiamato a rendere conto di sé, di ciò che dice, pensa, fa. Ed ecco anche l’estrema importanza assunta dal riavvicinamento tra verità e politica su cui ritorna spesso rifacendosi, oltre che a Kant, alla figura di Socrate.

Il modello di comunità empatica nel quale Hunt individua i presupposti per l’affermazione del linguaggio dei diritti umani non prevede in un primo tempo le donne tra i soggetti di diritto. Tu hai invece evidenziato quanto Kant e Arendt ci indichino un modello di comunità relazionale basato su un sapere plurale e condiviso. Che spazio ha in questa comunità la riflessione sulle donne, sui loro diritti, sul loro accesso alla cittadinanza?

La riflessione sulle donne e sui loro diritti non è qui diretta, né esplicita. Eppure sappiamo quanto Kant abbia invitato le donne a uscire dalla stato di minorità, di sottomissione al mondo maschile per entrare nel regno della ragione. Sarebbe troppo lungo qui affrontare con chiarezza questo aspetto, posso solo dire che l’estensione della ragione all’umanità tutta, per quanto piena di limiti e di punti critici, ha avuto conseguenze importanti nella storia occidentale che, ben oltre Kant, hanno portato al pieno dispiegamento della libertà femminile. Ad Arendt interessa soprattutto la necessità del pensiero critico e l’importanza, dal punto di vista umano e politico, di aprirsi a una visione del mondo quanto più cosmopolita possibile. La specifica universalità dei giudizi di gusto non poggia infatti su concetti ma sul sensus communis che, per dirla con Lyotard, garantisce una condivisione universale. Così, è a partire da questa condivisione e dal riconoscimento della nostra co-esistenza in un mondo plurale e creativamente fecondo che è possibile gettare le basi per una nuova filosofia politica.