“Sentire e Scrivere. La Natura”, il libro di Chiara Zamboni
Ho letto il libro Sentire e Scrivere. La Natura nella clausura della Pandemia, mi è arrivato come una manna dal cielo, spedito dall’autrice, Chiara Zamboni, un’amica con la quale non ho mai smesso di essere in relazione e di dialogare. La narrazione si sa ha potere salvifico, ma su di me non sempre sortisce questo effetto, non sempre mi riesce di abbandonarmi alla lettura, perché entra in funzione una vecchia abitudine all’”analisi oggettiva”. Questo libro, invece, mi ha fin dalle prime pagine suggerito una modalità di lettura diversa, ossia di leggerlo seguendo un filo interno. Ho, quindi, aperto, come si dice nella introduzione, la mia “anima all’infinito”, facendo emergere e fluire insieme alla sua trama (un susseguirsi e un rimando di figure) il mio sentire, emozioni e pensieri, il mio mondo troppo a lungo contratto nella clausura. Ho portato a spasso i miei cinque sensi come dice Marta per bocca di Eckhart stando presso quel mondo che questo testo mi apriva.
Se vi aspettate un libro di ecologia o di descrizione delle bellezze naturali o di scienza della natura o una indicazione per entrare in un ordine della natura prestabilito vi sbagliate. La natura non ha un ordine oggettivo, noi ne siamo già avvolti con il nostro sentire fin dall’inizio della nostra vita, dobbiamo solo imparare a seguire dall’interno il suo potere generativo. Ed è per questo che ne suggerisco la lettura a tutti gli ecologisti, gli animalisti e gli scienziati ma anche ai poeti e letterati: il testo va oltre ogni distinzione tra scienze esatte e umane di diltheyana memoria.
Mano a mano che mi inoltro nella lettura, vedo cadere tutte le ideologie occidentali, nate nei secoli intorno alla natura, dal naturalismo al vitalismo e all’idealismo. Vedo cadere ogni intellettualismo e scientismo che, invidiosi del potere generativo della natura naturans, la oggettivizzano, per imporre il loro dominio, nel mero livello biologico o/e sul freddo tavolo della verifica sperimentale.
Paradossalmente “occorre curare la lingua, se si ama la natura”, sostiene Chiara. Il significato del libro sta tutto in un punto, nel punto che separa e unifica Sentire e Scrivere. La Natura. Il titolo non dice “Sentire e Scrivere la Natura”. Ma dice: Sentire e Scrivere punto La Natura. ”La natura non è oggetto del sentire e dello scrivere e nemmeno soggetto. Tra noi e la natura c’è un legame impersonale, una relazione di fiducia inconscia.
Allora di cosa parla questo libro? Parla di linguaggio e scrittura come espressione dell’inconscio, latenza di un corpo che costituisce nelle cose del mondo un campo comune che si esprime nel sentire, prima ancora che nella percezione (M. M. Ponty). Ma parla soprattutto di differenza sessuale, punto di avvistamento di questo sentire e scrivere.
Sono soprattutto il pensiero e la scrittura di alcune donne che Chiara Zamboni ripercorre dalla Bachmann alla Campo, passando per l’Ortese e Zambrano, poi gran parte del testo dedicato a M. M. Ponty, filosofo caro a Chiara, che tra tutti i filosofi è quello che più ha indagato il sentire, il legame corpo-mondo, ma anche questo pensiero viene sceverato alla luce della differenza sessuale, a partire da Luce Irigaray, Melanie Klein e dalla autrice in prima persona.
Senso, scrittura, natura! Ma cosa è la natura se non il “mondo” sentito descritto da un logos che non è la ragione astratta, e nemmeno un’esperienza sintetizzata come da Kant in un apriori, ma il luogo di un’anima aperta all’infinito, che lascia fluire lo spazio interno in un continuo legame con l’esterno?
Chiara quindi parla di un logos onirico, mistico, quindi simbolico, unico registro su cui si può iscrivere un inconscio non prettamente naturalistico come quello di Freud dominato dai due istinti (Eros e Thanatos), né come spazio astratto, ridotto in Husserl ad un Io trascendentale purificato dalla realtà. Chiara attraverso Ortese parla di reale non di realtà, quel reale in cui l’io trascendentale non ha ragione di essere, perché non ha da appigliarsi ad un io individuale visto come identità, ma è un io svuotato delle sue rappresentazioni “un punto di aggancio” come sostiene anche Bachmann, un semplice “uncino” (p.25). Ortese anche con la figura dell’espressivo ci spiega come non ci sia bisogno della mediazione dell’io: “L’espressivo consiste nel rendere quella luce delle cose che non sorge da altrove, se non dalle cose stesse”(p.43). Il molteplice delle cose non viene ridotto ad uno, all’unità della forma, ricerca ossessiva di un Hofmannsthal, in balia di una pluralità indomabile che vuole a tutti i costi contenere, ma trova il suo limite nella scrittura che lascia comunque libero il fluire della physis. Ortese esprime la molteplicità delle cose in un proliferare e designare di nomi (mare, monti, cielo, stelle, galassie) nell’abbandono completo alla materia cosmica di cui partecipiamo. “L’inquietudine dei nomi è un lievitare per la scrittura” (p. 45).
Si tratta di realismo onirico e si tratta di un “abbandono”, è proprio qui che parla la differenza sessuale, in questa “passività” per nulla passiva del modo di esperire il reale da parte delle donne. Qui è anche presente la Weil con l’“attenzione”, un’azione passiva, un ossimoro che ben svela il concetto.
Questo è un libro sul corpo, sull’inconscio, sull’essere, registri diversi che si toccano ma che non si scontrano mai, i cui fili vengono retti dalla Differenza sessuale. Ma è l’amore,l’amore per l’altro da sé, per gli umani, per gli animali, per le cose, la traccia che ho seguito per attraversare questo libro scritto in modo semplice ma che si snoda su più registri.
Ortese parla di amor mundi, l’amore per il mondo. A tal proposito Chiara sostiene che “c’è una linea del pensiero femminile del Novecento che riprende questa figura concettuale che permette il sentire il mondo e il sentirlo con tutte se stesse. Lo troviamo in lei, in Simone Weil, in Hannah Arendt, in Maria Zambrano” (p.47). Amore come Agape, comune partecipazione al corpo celeste e penetrazione nel logos, “la ragione profonda del cosmo” in Ortese. Amore che si sostituisce al diritto e all’etica, guida della conoscenza e dell’azione nella visione di Laura Conte, ecologista sui generis, che fonda la scienza sull’amore per il sistema vivente di cui facciamo parte ed esclama: “Amo il sistema vivente e lo voglio proteggere”(82). Amore come innamoramento che subentra alla fredda ermeneutica per Maria Zambrano, perché le cose si aprono alle nostre interrogazioni solo per chi è preso da innamoramento. Alba, aurora, l’orizzonte, la soglia, le pietre, il canto degli uccelli è un affiorare di forme attraverso cui la natura si dà a noi ma nello stesso tempo ci cattura nell’“immagine radiante della significazione” e “entriamo in questo modo nel gioco filosofico” di sviluppo in ulteriori immagini, “spinti dalla stessa Zambrano a seguire l’orientamento innamorante del testo, seguendo la seduzione immaginale”(p.101).
In M. M. Ponty l’amore fa da padrone nel gioco forza delle due linee lungo cui si snoda la riflessione di Chiara, quella del “tatto- empatia”, ma anche in quella del “linguaggio laterale” e scrittura.
Il tatto, che è soprattutto con-tatto, empatia. Empatia che non è che attrazione amorosa, “un sentire appassionato prima di ogni riflessione” (p.135) e in un altro punto “il desiderio investe gli altri, ma soprattutto le cose, il mondo. Diviene qualità ontologica (p.136). L’empatia dunque è erotismo e il sentire un movimento erotico.
L’amore non investe però solo i sensi ma anche il linguaggio che non è un linguaggio avulso dalla cosa – l’altra linea di indagine di Chiara lungo il pensiero di Ponty-. Possiamo parlare della natura attraverso un andare laterale, orizzontale nel linguaggio, che dia spazio alla relazione costitutiva, attraverso “un linguaggio innamorante che risvegli dal suo interno quel linguaggio che si è addormentato in significati istituiti e dominanti” (p.198). Qui il linguaggio si muove lateralmente essendo orientato a significare qualcosa che ancora non sa e scoprirà nella scrittura stessa.
Non c’è prima l’esperienza e poi il linguaggio, entrambi nascono nell’apertura al mondo, nella relazione materna all’atto della nascita; su questa primaria relazione di amore nasce la fiducia nel mondo.
Il linguaggio, la scrittura come il sentire si fonda sulla fiducia. Cosa è la fiducia se non la forma più alta dell’amore, che è soprattutto affidarsi all’altro, come la bambina/o si affida alla madre? Devo dire che, nonostante concordi con Chiara sul fatto che le critiche di Luce Irigaray su M. M. Ponty (p.68-69) non siano tutte centrate, noto comunque da parte dell’autore uno slittamento di senso dalla relazione materna, fondamentale per la fiducia nel mondo alla Terra come suolo. Questo motivo, che M. M. Ponty riprende da Husserl, Chiara ce lo descrive con queste parole: “La relazione con la Terra come suolo è l’esperienza originaria (…). È un’esperienza fondata sulla fiducia, dunque indimostrabile, e perciò minacciata dai fantasmi. Fondamento anche di ogni conoscenza scientifica, che è vero che ci porta lontano con le sonde spaziali dalla Terra, ma non da tale radice prima”( p.203).
Qui nella mia mente e cuore affiora vivido il ricordo di quelle prime discussioni in Diotima quando insieme ci interrogavamo, avendo messo da parte i sacri libri dei grandi filosofi e tutta la tradizione occidentale filosofica in quanto maschile, sul chi, chi ci dovesse legittimare, autorizzare a parlare. Molta di questa discussione la ritroviamo in un testo fondante della Differenza sessuale di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, ma già negli scritti di Luce Irigaray, Speculum e Etica della differenza sessuale. Di strada ne abbiamo fatta d’allora, ma è ancora oggi la “madre” in cui è riposta la nostra primaria fiducia nel mondo ad darci legittimazione e autorizzazione.
Chiara Zamboni, Sentire e Scrivere. La Natura, ed. Mimesis