Sibilla atleta dell’amore
In questo momento in cui non possiamo abbracciarci, parliamo di un grande amore: quello tra Sibilla Aleramo e Dino Campana. Per consolarci? No! Semplicemente per inneggiare alla passione, ai suoi fuochi, alle sue bruciature…
Rina Faccio è il suo vero nome.
Sibilla Aleramo lo pseudonimo con il quale è conosciuta.
A chiamarla così è stato lo scrittore Giovanni Cena.
Sibilla è nata nel 1876 ad Alessandria.
Violentata da un impiegato del padre, lo dovette sposare nel 1893.
Nel 1902 abbandonò il marito e il figlio nato da questa unione infelice per andare a Roma a vivere con Giovanni Cena.
Pubblicò nel 1906 il romanzo “Una donna” che riecheggia la storia della sua vita e che le diede fama internazionale.
Folgorante la serie dei suoi innamoramenti: Cardarelli, Papini, Boccioni, Cascella, Boine, Rebora….
Tra il 1916 e il 1917, Sibilla Aleramo conobbe Dino Campana.
Indubbiamente uno dei più originali poeti italiani.
Nacque una tempestosa relazione testimoniata dalle lettere di entrambi.
In seguito Sibilla ebbe altri svariati amori. Continuò il suo lavoro di scrittrice e si dedicò a tematiche femminili e politiche.
Pubblicò numerosi testi narrativi, volumi di poesie e saggi.
L’ultima straziante passione fu tra lei sessantenne e un poeta appena ventenne, Franco Matacotta.
Sibilla Aleramo morì nel 1960 a Roma.
La storia con Campana non fu come le altre. Fu la più tormentata e la più profonda. C’era il desiderio fisico ed intellettuale, la volontà di lasciare traccia di questo amore nei posteri e una dolcezza quasi materna. Le sembra di essere lei sola ad amare l’altro. Lei che vive e vivrà sempre da innamorata dell’amore.
A Dino Campana scrive: “Dicevi ch’eri tu che mi amavi, Dino? Sono io, sono io che amo te. Che dipendo dalla tua vita. Non chiedo altro. Ti adoro. Vivo perché m’hai detto che il mio amore, di cui non hai bisogno, ti è però caro. Adorato. Hai promesso di scrivermi come stai, aspetto, aspetto, guardo verso il mare dalla mia torre”. Rina
E ancora a lui: “Dino, bisogna esser forti, stringersi, non lasciarsi. Io sto male, io la tua amica. E tu, amore mio, anche tu soffri, lo sento. Ci amiamo, perché non vogliamo vivere? Dino. Le ultime notti sentivo quando m’abbracciavi, e mi dicevi, che c’é ancora tanto vigore in me. E in te c’é tanto sole. Stretti, siamo una cosa miracolosa. Dobbiamo vincere. Rientriamo insieme nella vita. Che ci vedano, belli, non soltanto nella nostra poesia, che ci amino per la nostra gioia, per la nostra vittoria. In questi giorni (e pur sto tanto male, sai, ho tanto freddo, ti cerco ti cerco). Verrà qualche aiuto, non temo più, potremo aspettar, senza affanno, la fine della guerra, e poi andremo in Francia. Ma non siamo staccati, ora. Dino, amore santo. Non posso viverti lontana. E t’ho carezzato così poco. Stavi tanto male, avevi paura che non t’amassi, che non sentissi che cos’eri per me, che ti credessi irreale, anche tu… Amor mio solo. Non avremo più paura, ora. Abbiam pagato. Stringiamoci. Dino, abbiamo degli anni pieni dinanzi. Finché sarò bella e forte.
Poi sparirò. Che tu abbia avuto tutta un’anima da adorare, da far felice in sua morte. E’ la nostra sorte. Hai detto che mi tieni, se voglio… Dove sei? Lo senti che non si può più lasciarci? (…)
(Milano, 30 maggio 1917)
“Ti ho sognato – eri coricato accanto a me – mi son svegliata che dicevi: “perdonami”. Eri tu, Dino – ti ho proprio rivisto, sentito.
Allora vuol dire che lo sai finalmente che t’ho amato? Lo sai che cosa orribile è stata la cecità? Quei tuoi occhi che chiudevi, ed eran fatti per il sole. Per me e per te.
Oh Dino, Dino, e ora è troppo tardi. Non oso più. Io son per sempre quella della notte in cui partisti da Firenze, piango come quella notte, da quella notte è come se avessi quattro anni, lacrime senza risposta in mezzo alla via d’una bambina battuta e sperduta. E nessuno più m’ha toccata.
Ero pura, Dino – perché hai voluto negarlo, e sapevi di mentire?
Sono pura – e mi sento morire – ed ormai è troppo tardi, amore, povero mio, mio, ch’io sola ho amato. Ti perdono. Ricordati. Avevo fede nell’anima tua. Salvala – come se dovessimo ritrovarci. In un sogno lo saprò, forse. Mio! Ti perdono. Vivi”.
Sibilla l’amava senza riserve, eppure Campana non era così sicuro della passione di Lei… Avvertiva che Sibilla lo stava lentamente abbandonando. Non era verso un altro uomo che l’errante Sibilla si dirigeva, ma verso la costruzione di un nuovo romanzo…
A Sibilla, Campana dedicò appassionati versi.
In un momento
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
Questi versi furono scritti su piccoli fogli laceri con inchiostro turchese. Per Dino Campana Sibilla era Sibilla ma anche Rina. Forse in questa dualità sta il segreto di Sibilla Aleramo, in questo suo nome profetico che in parte le corrispondeva, in parte no. C’è in lei l’intellettuale lucida e lungimirante e c’è la donna fragile, inquieta, malinconica…
I suoi amori sono tanti e anche i luoghi dell’amore diventano tanti.
Capri, Sorrento, Roma, le Alpi… Tra mare e cielo, tra cime fulgenti d’argento e campi dorati di frumento…
Una mappa del desiderio che si conclude in Grecia, palcoscenico che vedrà Sibilla Aleramo protagonista dell’ultimo infuocata passione per il giovanissimo Franco Matacotta.
“Eleusi Olimpia Nauplia Delfo
Apollo Hermes Nike Athena
Dei a voi venni una primavera…”
Insomma, Sibilla, o meglio Rina, all’amore non voleva e non sapeva rinunciare. Al diavolo l’età anagrafica! Quel suo cuore ardente non si è mai incenerito.
Né trascurò la scrittura che era per lei, come sempre, soprattutto parola d’amore.
“Grido. Posso ancora gridare. Cantare, no, forse. E ho cantato così poco, in tanto spazio d’anni, appunto perché son stata costantemente io stessa essenza di poesia, se poesia è vita al grado supremo, è amore che mai si esaurisce”
Non è un caso che ad una sua opera diede questo titolo: “Amo dunque sono”:
Ed è proprio in “Amo dunque sono” che troviamo questa confessione: “Cercavo l’amore come il più certo tramite per giungere a Dio. Dove ad altri perviene con l’ascesi solitaria, io non arrivo se non ho l’ausilio di un’immagine viva, nella quale sia il mio stesso segno d’immortalità. Mi riconosco incompleta come Adamo prima che Eva gli sorgesse a fianco, come l’innamorato nel mito platonico… Credo che la donna più vera sia quella che accoglie con ardore il principio virile e lo elabora e gli dà una trasparenza tutta femminea….”
Sibilla: atleta dell’Amore in senso mistico e carnale!