Sono stati i volti, i gesti, gli abiti, gli sguardi di figli, mariti, madri, a ricostruire, alle spalle di tanti morti anonimi, una “normalità” in cui molti hanno potuto riconoscersi, e non tanto per il paesaggio occidentale che faceva da sfondo alla messa in posa, quanto per i sogni, gli affetti, le speranze che parlavano silenziosamente attraverso quelle immagini.
Il giornale, scriveva Baudelaire nel suo diario, è “un’ubriacatura” di fatti atroci che accompagna la colazione dell’uomo civilizzato e che come tutte le sbornie, si potrebbe aggiungere, passa quasi senza lasciare traccia. Sono passati da allora circa centocinquanta anni, il rituale dell’informazione non è cambiato, mentre è cresciuta a dismisura, insieme al numero degli orrori di cui si viene a conoscenza, la loro similarità. Miseria, malattie, guerre, migrazioni forzate, fanno del Sud Mondo il cataclisma naturale o la “piaga biblica” che incombe sull’Occidente, e non servono i richiami alle responsabilità storiche degli abitanti più fortunati del pianeta, perché niente è più paralizzante dell’ombra della colpa e del necessario risarcimento.
Da anni il Mediterraneo è attraversato da flussi migratori provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, spesso con esiti tragici. Gli scarni racconti dei sopravvissuti e dei soccorritori sono sempre gli stessi e spingono il pensiero verso un’unica raggelante immagine: i cadaveri che si depositano sul fondo marino e quelli che, mutilati, decomposti, affiorano alla vista o nelle reti dei pescatori. Dove intervengono variazioni capaci di risvegliare sentimenti meno distratti di umana compassione e civile turbamento, è perché i fatti si presentano particolarmente macabri.
La generalizzazione di un fenomeno agisce in modo analogo, che si tratti di princìpi o di esseri umani: sottrae il contesto che lo renderebbe riconoscibile a molti, per farne una spoglia, in tutto simile ad altre, di cui ci si può liberare facilmente. I poveri, quando sono per di più stranieri e migranti non autorizzati, perdono ogni legame di appartenenza a luoghi, culture, famiglie; diventano numeri, tratti somatici o un vuoto a perdere, quando, come capita spesso nella traversata del mare e del deserto, i corpi non si trovano ed entrano nel conto approssimativo delle vittime. Tra il popolo inabissato nel Mediterraneo e quello più ridotto che ha trovato posto nel cimitero di Lampedusa, passa come unica differenza una croce numerata, simbolo di integrazione in un paese che non si è nemmeno conosciuto. Per il resto, vale l’identità astratta che sulla “nuda vita” tracciano le carte burocratiche. Il visto, proposto per i migranti “regolari” dai governi europei, contenente i “dati biometrici” (iride, impronte digitali, dna) parla lo stesso linguaggio di quei “passaporti” per l’inumazione che sono contenuti nei verbali dell’ufficio civile: sesso, età presunta, carnagione, altezza, stato di conservazione del cadavere, una carta di riconoscimento riportata a quel limite estremo che è il sostrato biologico di ogni vivente.
A ridare volti e familiarità di tratti a persone ridotte alla pura corporeità, non bastano evidentemente i racconti dei superstiti, e nemmeno le informazioni politiche e geografiche con cui i cronisti tentano di dare una cornice plausibile all’orrore. A volte è sufficiente una foto di famigliari, per dimostrare che la storia può aprirsi strade insospettabili proprio là dove si immaginava di custodire intimità e ricordi strettamente personali.
Sono stati i volti, i gesti, gli abiti, gli sguardi di figli, mariti, madri, a ricostruire, alle spalle di tanti morti anonimi, una “normalità” in cui molti hanno potuto riconoscersi, e non tanto per il paesaggio occidentale che faceva da sfondo alla messa in posa, quanto per i sogni, gli affetti, le speranze che parlavano silenziosamente attraverso quelle immagini.
Sentimenti più adeguati di una frettolosa compassione, o dello sgomento, passano per processi di identificazione, scoperta di somiglianze, accostamenti impensati. L’”estraneità” si incrina quando compaiono “vite vere”, con un prima e un dopo, legami familiari e sociali che non spariscono con la morte. Al posto di un presente immobile e fatale, ha cominciato a muoversi, intorno alle tragedie dei migranti, una vicenda “comune” alla famiglia umana, che ha interessato e che potrebbe interessare tutti i popoli.
Questo articolo è stato preso da FACCIAMO COMUNE INSIEME
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