“Stirpe di madre”, storia di Fatou, voce delle donne Tuareg
Prendetevi una breve pausa e immergetevi nel racconto della vita di Fatou, guaritrice e veggente dei
Tuareg algerini, vissuta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Una storia di pura finzione, ci dice Rossella Grenci, autrice di “Stirpe di madre” (Scatole parlanti, 2022, 91 pp.), ma ricca di dettagli e richiami storici sul popolo Tuareg, sulle sue antichissime origini berbere e matrilineari, che con l’arrivo del XX secolo ha intrapreso la sua parabola discendente a causa delle guerre, delle invasioni occidentali e della siccità.
Tutto ruota intorno alla figura di Fatou, «il pilastro della tenda», che incarna «l’accoglienza, la
cultura e la bellezza.» Fatou conosce i riti arcaici e cura secondo la tradizione, aiutando anche le
donne nel parto. Eppure il suo ventre non si abita – racconta con dolore – «è un imzad con la corda
rotta, un tamburo senza pelle», subisce lo sguardo di compassione, a volte di spregio, delle anziane
che ripetono che non c’è futuro e ricchezza senza bambini. Per questo anche suo marito la
abbandonerà e lei resterà sola ad aiutare le altre donne della comunità, come la poetessa Dassine,
che assiste con onore durante il parto, anche con i rituali che le sono stati trasmessi: «sono chiamata a invocare gli spiriti e, secondo le usanze, faccio saggiare al neonato un impasto ottenuto mischiando il
latte materno e la polvere di tamarindo, amaro come le difficoltà della vita, e subito dopo un impasto dolce di latte e dattero, perché non è mai solo aspra la vita.»
Non è mai solo aspra la vita, ci ricorda Fatou, nel sorprendente alternarsi di magia e poesia, offre
una testimonianza sulle donne nella comunità Tuareg: «il nostro tempo è lento, la sera ci lasciamo
andare alle chiacchiere. Qualche donna mi chiede consiglio per la salute, altre cercano di sapere
come si fa a non riempire il ventre di vita senza intristire i mariti […]»
Un bagaglio di competenze e tradizioni che devono resistere all’arrivo dei francesi all’inizio del
Novecento. «Imparare la lingua degli stranieri ci ha portato a non parlare più la nostra e a
dimenticare la scrittura degli antenati – racconta Fatou – Siamo efsi, disgregati, vaghiamo da una
terra all’altra perdendo a ogni spostamento un pezzo di noi, delle nostre tradizioni di uomini erranti,
della vita che abbiamo costruito in secoli di storia.»
La storia di questo passaggio, di questa disgregazione, viene tracciata nel libro attraverso i legami
femminili, con il racconto di diverse esperienze di maternità vissute nella comunità. Fatou stessa
avrà la gioia di accudire e crescere Adji, che incrocia la sua strada obbedendo a una profezia: «c’è
un bambino alla ricerca di una madre, sta facendo una strada più lunga, le Sorelle della luce lo
guideranno presso di te.»
La voce di Fatou è il filo rosso che unisce nel tempo tutte le vite che affollano il racconto, una voce
che vorrebbe ancora destare interesse e ricordare i segni che i Tuareg hanno lasciato nel tempo. Fino
alla sua morte, la donna continuerà a raccontare, a testimoniare la pace di fronte alla progressiva
dissoluzione del suo popolo man mano che il Novecento avanza.
«Ascoltate il cuore delle madri – sembra infine implorare a nome delle altre donne che hanno
conosciuto il dolore del lutto e della guerra con i francesi – la voce delle nostre antenate che urlano
nelle orecchie delle donne di notte e sconvolgono il sonno degli uomini! […] Ricordate che siamo
tutti figli di donna, che la donna non sguaina la spada né lancia il giavellotto. Si può vivere di quel
che si ha, si può tramandare la stirpe seguendo le tracce di donna e mai rivoltarsi uccidendo. […]
Sono Fatou e alle donne e agli uomini di un tempo che deve ancora venire dico che noi siamo e
saremo, in terra d’Africa, stirpe di madre.»