Sul macabro pronunciamento dei ginecologi cattolici
Dal bog della Rete delle donne di Bologna riprendiamo l’intervento di Elena del Grosso (biologa e genetista) nel dibattito sul documento dei ginecologi. Molte delle mie preoccupazioni, esternate ultimamente all’incontro “Occorre il nostro Benestare” si sono materializzate nella decisione presa dai titolari delle cattedre di Ostetricia delle quattro Università romane (alla faccia della laicità dell’insegnamento universitario).
{{ E’ arrivato ciò che era nell’aria da molto tempo.}} La competizione elettorale che si è avviata necessitava di uno starting point. Gli “esperti” lo hanno preparato e consegnato ai competitori e purtroppo alle competitrici.
Credo che noi donne dobbiamo fare {{uno sforzo di riflessione individuale e collettivo per rispondere}} a quest’ennesimo attacco anche se ci fa schifo e forse siamo impegnate su temi che ci appassionano di più.
Ancora una volta la laicità e l’autodeterminazione della donne come diritto della persona a decidere di sé, del proprio corpo e della propria vita è la sola strada percorribile.
Per un momento lasciamo stare la 194 e {{prendiamo in considerazione la questione del testamento biologico}} (neanche questa voluta dalla chiesa ma su cui il mondo laico ha costruito un generale consenso) che riguarda le fasi della vita e della morte di ciascuna/o di noi.
_ Il testamento biologico mentre ci interroga nel profondo, ci rimanda ad {{un’assunzione di responsabilità}} rispetto al che fare nei momenti estremi della nostra vita quando non possiamo più esercitare quel famoso “consenso informato” di cui il medico ha bisogno per agire sul nostro corpo e che è l’espressione della {{nostra autonomia di scelta sancita dalla Costituzione.}}
{{Un feto di 5 mesi può esercitare questo diritto all’autonomia e fare quindi testamento biologico?}} La risposta è evidente: no! Allora chi lo fa per esso?
{{Chi è il soggetto morale che lo può fare?}} Una legge astratta dello stato in nome di un’etica dei principi o la madre che ce l’ha nel suo corpo (quel feto è parte di essa) e la cui etica della responsabilità le consente di coniugare i fatti che inaspettatamente le vengono presentati con i valori che fino a quel momento l’hanno conformata?
Noi rispondiamo che quella donna come madre di quel feto che dopo 5 mesi è evidentemente un figlio desiderato è l’unica autorizzata a parlare e prendere la decisione (non siamo all’inizio di una gravidanza dove se non c’è il desiderio o la possibilità di essere madre, il diritto a interrompere la gravidanza non è da mettere in discussione). Non ci dovrebbe essere legge dello stato o altro genitore a prendere il suo posto (non si è forse sempre detto “mater certa est”?). Nessun altro, tranne lei, può elaborare quel dolore e quel lutto.
La proposta dei ginecologi è offensiva di tutto questo. E’ una sorta di accanimento terapeutico e di violenza inaudita nei confronti delle donne. E’ una cattiveria gratuita che fa scempio della gravità e della sofferenza di quella donna che è costretta a rinunciare alla propria felicità in nome di una sicura vita di sofferenza o della sicura morte di quel figlio che ha nel suo grembo.
Tuttavia credo che le donne debbano fare una seria riflessione utilizzando {{un linguaggio più semplice possibile, accessibile al maggior numero di donne}} e che sappia parlare al cuore oltre che alla testa.
Su almeno due cose dobbiamo dire cose nuove:
{{la medicalizzazione della gravidanza e di quell’embrione}} poi feto che cresce nel suo corpo che diventa un oggetto in mano al potere medico che tutto sa e tutto decide;
{{la medicalizzazione delle nostre vite}} per cui o siamo sempre malate (il concetto di “completo benessere” volutamente e giustamente aggiunto dall’OMS sembra tuttavia rimanere un mito!) o se siamo sane siamo tuttavia “in pericolo di”.
{{In una società con un ambiente inquinato}} fino a porre in discussione l’intera sopravvivenza umana, con le guerre e le armi di distruzione di massa è ridicolo pensare che la classe dirigente si preoccupi davvero per la salute dei suoi concittadini in questo modo, considerato che al solito se lo fa ragiona soltanto in termini di costi del welfare.
Nella società della prevenzione, “meglio prevenire che curare” è uno slogan retorico ma efficace per la costruzione del consenso su ciò che è salute e ciò che è malattia. E’ uno slogan che si delinea perciò come {{uno strumento di controllo sociale e di discorso ideologico intorno alle politiche del corpo e della vita}} nel senso ampio del termine.
Le questioni eticamente sensibili diventano così strumenti di politiche che mirano a fare dei corpi di uomini e donne le nuove “res publicae” su cui e attraverso cui arrivare alle “nuove sintesi” politiche.
Personalmente così come sono stata molto critica alla “Nuova sintesi” sociobiologica di Wilson così sono contraria a queste {{nuove sintesi politiche che ripropongono vecchi modelli}} e che nello specifico della questione di cui si parla in questi giorni (mi fa schifo persino nominarla) ripropone l’antico conflitto tra il diritto alla vita della madre e il diritto alla vita del feto dove la chiesa si è sempre schierata a favore del figlio del padre dimenticando, i suoi sacerdoti (devoti o meno) di essere nati da una donna.
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