Tensioni e conflitti dietro il “boom indiano”: il caso Tata e non solo.
Organizzato da Genere & Generazioni, presso la Casa internazionale delle donne di Roma, lunedì 8 settembre si è tenuto un dibattito su Sviluppo sostenibile e violenza di stato. Il caso dell’India.
Era attesa Anuradha Talwar, presidente del comitato dei braccianti PBKMS (Save the Lands Committee), una delle donne attiviste che, insieme a Medha Paktar e a Mahasweta Devi, ha organizzato la {{mobilitazione contro gli impianti industriali Tata Motors}} nel Bengala occidentale e che, proprio per l’evolversi degli avvenimenti in discussione, ha rinunciato al suo viaggio in Europa.
Presenti tuttavia all’incontro persone direttamente partecipi e interessate alla situazione politico culturale dell’India, l’incontro ha efficacemente illustrato ciò che sta accadendo in alcune zone del paese. {{Eventi che richiedono attenzione, solidarietà e soprattutto riflessione}}, sia perché ne sono protagoniste e vittime tante donne, sia perché determinati da un processo storico in cui l’India non risulta afflitta da un arretrato problema postcoloniale ma impegnata in un difficile conflitto scaturito dalla globalizzazione. Si impongono {{modelli di sviluppo che ignorano la vita delle popolazioni}}, consapevoli ma fragili, proprio in zone rette da un governo di sinistra, in cui l’agricoltura consente un livello di vita accettabile. {{Le lotte degli agricoltori e soprattutto delle donne indiane parlano anche di noi, del nostro futuro}}.
Veniamo ai fatti, illustrati da {{Sara Vegni}} dell’associazione A Sud da anni attiva in India. In occidente si parla e ci si preoccupa del {{boom indiano}}, assieme a quello cinese, per la concorrenza offerta dai due colossi asiatici e per le prospettive di recessione {{ma poco si sa della diseguale distribuzione della ricchezza, delle continue violazioni di diritti umani, ambientali, sindacali}}.
Per permettere ai capitali nazionali e stranieri di installare stabilimenti, industrie e colture intensive nei territori destinati alle popolazioni rurali, l’India ha istituito e continua ad istituire nei vari stati che la compongono delle zone chiamate {{SEZ – Special Economic Zone}}.
In queste zone, ove vigono normative ambientali, fiscali e sindacali molto ammorbidite, {{le imprese costruiscono le loro industrie sfollando la popolazione, offrendo in cambio della terra compensi ridicoli e, in caso di opposizione delle comunità, reprimendo le proteste}}. Ad esempio ciò è accaduto a Singur, nel West Bengala, dove dal 2006 è aperto un conflitto la cui responsabilità è riconducibile a due imprese: {{il colosso indiano Tata}} – con il brand Tata Motors – e l’italiana Fiat. Le due imprese automobilistiche siglano nel giugno 2006 ( per l’Italia firma Prodi) un accordo per la progettazione e la produzione di una piccola utilitaria low cost. Per l’industrializzazione di questa auto si sceglie di costruire una nuova fabbrica nella regione di Singur, a circa 35 chilometri da Calcutta. Per fare spazio ai nuovi impianti vengono sfollati 22.000 contadini e requisita una superficie di circa 1000 acri.
La decisione solleva una forte protesta popolare. Gli oppositori argomentano che lo sviluppo industriale non può affermarsi in conflitto con lo sviluppo dell’agricoltura e propongono a Tata ed a Fiat di spostare il progetto sui numerosi terreni non coltivati che potrebbero corrispondere ai requisiti richiesti dalle industrie, invece che sul terreno scelto, che è straordinariamente fertile, capace di tre o quattro raccolti all’anno. La Tata ignora qualsiasi trattativa, mentre la Fiat, che ha addirittura nel suo Consiglio di Amministrazione il proprietario della Tata, Ratan Tata, decide di non dire assolutamente nulla. Dopo due anni di proteste, tensioni, morti, a lavori già iniziati e senza che nulla lasciasse intravedere una soluzione favorevole ai contadini in rivolta, il 2 settembre 2008 è arrivato a sorpresa {{l’annuncio della Tata di voler abbandonare il progetto a causa del protrarsi delle proteste}}. Si sta trattando e la sindacalista Anuradha Talwar ha rinunciato al suo viaggio in Europa.
Il governo del West Bengala, amministrato dal CPI (M) – Partito Comunista Marxista Indiano, per far posto alla mega fabbrica utilizza addirittura una legge coloniale: il {{Land Acquisition Act}} del 1894, che non prevede si debba chiedere il permesso ai contadini prima di sfrattarli. Il governo del West Bengala ha pianificato la realizzazione di almeno altri sei progetti industriali nella regione.
Tuttavia, dichiara {{Mariella Gramaglia}} che nel 2007 in India ha svolto un lavoro di volontariato internazionale per difendere i diritti delle donne indiane più sfruttate – per Progetto e sviluppo, una organizzazione della Cgil che si occupa di cooperazione e tutela delle lavoratrici del Paese asiatico – le SEZ scavalcano i governi locali e il problema si presenta identico in regioni con governi di destra, anzi destra e sinistra competono per ottenere le SEZ nelle loro regioni. {{Si stanno infatti imponendo modelli sociali postdemocratici con gravi conflitti di natura sociale, economica e religiosa.}}
Nel corso dell’incontro sono stati proiettati {{filmati di Piero Pagliani}}, presente a Calcutta durante gli scontri, che documentano l’incredibile violenza con cui lo stato del Bengala ha reagito alle lotte uccidendo i braccianti che difendevano la terra, l’ambiente e il diritto alla sovranità alimentare.
Il suo lavoro da regista dilettante è dedicato a {{Tapasi Malik, giovane attivista della lotta agli espropri}}, trovata carbonizzata in una fossa nell’area recintata dal cantiere di costruzione della fabbrica il 18 dicembre 2006. Per la polizia locale si tratta di un suicidio. Una autopsia ha appurato che le è stato dato fuoco da viva, dopo che la ragazza era stata seviziata e stuprata. Tapasi Malik, ormai considerata ‘la martire di Singur’, è diventata il simbolo dei contadini che non vogliono rinunciare alla loro terre.
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