Terra promessa: il sogno argentino
Camminando per strada tra immigrate di ogni razza ed età, mi soffermo spesso a pensare come debba essere la loro vita in un paese tanto diverso da quello d’origine. Che ruolo hanno avuto nella decisione di partire? Come immaginano il loro futuro? Cosa si aspettano dal cosiddetto ricongiungimento familiare? Sono molto diverse dalle italiane emigrate poco più di una cinquantina d’anni fa verso l’America?
Di queste ultime posso raccontare qualcosa, avendone intervistate molte per la preparazione del libro “{{ {Terra promessa-il sogno argentino} }}”, pubblicato dal Consiglio Regionale delle Marche e patrocinato dall’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires, dall’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, dal Ministero per gli Italiani nel Mondo, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Non furono certamente molte le marchigiane partite sole per l’Argentina; l’unica storia di cui sono venuta a conoscenza, è quella di Fernanda Torresi Corradini di Porto San Giorgio (Ap).
_ La sua avventura è raccontata dalla figlia Maria Teresa, proprietaria del ristorante “La Marchigiana” a Mendoza, sorto alla metà del secolo scorso, proprio grazie alla determinazione della madre, forte ed intraprendente, partita verso il Paese sudamericano per realizzare il sogno di una vita migliore: “Il locale? Era una catapecchia. Quando pioveva, ricordo che mia madre cucinava con un impermeabile sulla testa… un giorno ad un cliente abbiamo dovuto mettere uno sgabello sotto i piedi perché non gli si bagnassero..”
Di norma{{ le coniugate raggiungevano i mariti in un secondo tempo}}, quando ricevevano i biglietti per la traversata. La decisione era sempre assunta dagli uomini; le donne subivano perché non potevano fare altrimenti, ma a costo di molte ansie e sofferenze : “Mia madre si ammalò, stava sempre male, aveva lasciato tutti, tutta la sua famiglia ad Osimo e sapeva che non saremmo mai tornati. Mi ricordo che prima di partire, guardando il baule, piangeva..”. – ricorda Emilia Silenzi. di Osimo, residente a Las Rosas.
_ {{Piangevano sconsolate}} anche quando, arrivate a destinazione, realizzavano di aver lasciato la propria casa di mattoni al paese, per una fatta di adobe, costruita con paglia, fango e acqua “Piansi sei mesi di seguito”- mi raccontò Maria Tiberi, di San Severino Marche, residente a Casilda. Più di una giurò e spergiurò che appena avesse avuto i soldi per il ritorno, sarebbe rientrata subito in Italia.
Alcune ricordano che proprio a seguito della loro partenza {{si aggravarono le condizioni di salute dei genitori}} rimasti al paese, che non avrebbero più rivisto: “Sua madre la supplicava di tornare presto e suo padre malato, per l’occasione si alzò dal letto ed indossò il miglior vestito, per farsi ricordare nel migliore dei modi” – racconta con commozione Graziella Palmira Antonelli, parlando della partenza da Penna San Giovanni (Mc) della madre Alessandrina Governatori.
Paula Judith Coretti de Moreno ricorda {{la solitudine e l’angoscia}} della bisnonna, Giuditta Rogani di Treia, sposata con Nazzareno Cardini e trasferitasi con lui vicino Las Parejas (in quel periodo formata da poche case collegate da strade di terra battuta). Giuditta ebbe un bambino prematuro che nascose in una scatola di tè cui non volle mai dare sepoltura: preferì riporla sopra una trave del tetto, confidando di portarla con sé in Italia dove sperava di tornare prima o poi. Morì invece a trentotto anni per polmonite (“Provata da tanti parti e dal duro lavoro, non riuscì a reagire alla morte della madre. Si dice che fosse di nuovo incinta”).
Una {{nota gioiosa}} è invece portata da Nelly Eckell Pannelli residente a Paraná, quando mi descrive la nonna Anna Pennessi di Macerata: “ Mi ricordo che cantava, cantava sempre, il più delle volte il valzer di Musetta della Bohème. A Macerata era stata educata in un collegio religioso, dove aveva studiato canto. Voleva dedicarsi all’opera, ma i genitori si erano opposti”.
{{Quando l’emigrazione era transitoria}}, le donne restavano a casa ad allevare figli ed accudire genitori e suoceri anziani. A mano a mano che gli uomini prendevano la via dell’estero, nei paesi di origine mutò la tradizionale divisione sessuale del lavoro, tanto che la presenza di fanciulli e donne divenne abituale anche là dove non era consueta.
_ {{Alle donne non erano risparmiati i più pesanti lavori}} (con poco riguardo al loro stato di gravidanza), mentre nei tempi perduti passavano con la massima disinvoltura dalla vanga ai ferri da calza o dalla zappa all’ago. L’assenza dei mariti nei paesi d’origine determinò un {{aumento del potere femminile nella gestione familiare}}: le donne iniziarono a frequentare l’ufficio postale, a recarsi nello studio notarile, ad investire le rimesse, pur seguendo scrupolosamente le indicazioni dei mariti lontani che non esitavano a rimproverarle, anche aspramente, quando mostravano di non aver compreso le loro direttive: “Hai capito: Hai sentito? O porti le recchie foderate de prisciutto? Eppure tuo padre è tanto svelto, e tu come ci sei uscita così cogliona?” – scrive Florindo Quacquarini alla moglie Maria il 20 aprile 1909.
Anche se il {{potere e l’autorità maschile furono intaccati soltanto marginalmente}}, la condizione di autonomia vissuta dalle donne per la prima volta accelerò il processo di cambiamento culturale, dotandole della capacità di agire (e talvolta di decidere) in prima persona, ciò che Paola Audenino nel saggio Le custodi della montagna: donne e migrazioni stagionali in una comunità alpina (1990) considera la più importante eredità dell’emigrazione.
Non erano rare, però, {{le donne che rimaste sole al paese}}, perdevano ogni contatto coi coniugi lontani cui dipendevano per il sostentamento proprio e dei figli. Spesso erano costrette a rivolgersi alle autorità per rintracciarli oltreoceano. Si trattava di uomini che non erano riusciti ad inserirsi in modo stabile nel mercato occupazionale e si erano scoraggiati e depressi, soli e lontano da casa. E’ quanto successe ad un emigrato civitanovese, rintracciato dal console di Salta nel 1905 :”Si trova in condizioni deplorevoli, si ammogliò e ha già un figlio, la moglie lo mantiene”..
Nessuna marchigiana emigrata in Argentina ha mai preso in considerazione la possibilità di sposare un uomo del posto: “Non avrei mai sposato un argentino, mai. Eravamo troppo diversi da loro” – mi dice Iolanda Strologo, emigrata nel 1950 ad Abasto, vicino La Plata, e rientrata ad Ancona quindici anni dopo.
{{I matrimoni venivano spesso decisi dai padri}} durante animate partite a tresette, sette e mezzo, scopa o trucco. Le figlie accettavano giocoforza le scelte (Perché non mi rimaneva altra via d’uscita, altrimenti sarei rimasta zitella). Erano certe che i padri facessero comunque la scelta migliore (“Perché ti sistemavano con un paesano”) e {{la possibilità di innamorarsi di un argentino non era neppure considerata}} (“Questo non si usava…una volta si faceva attenzione a chi si sposava”).
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