Terremoto e disabilità, la paura di non poter scappare: due mamme raccontano
Simona era a 20 chilometri da Amatrice: ho trascinato mia figlia fino all’auto. Miracolati perché la casa è al piano terra, siamo usciti facilmente. Chiara a Roma, al 7° piano, col figlio gravemente disabile: notte di terrore, passata ai piedi del suo letto. Noi non possiamo fuggire
ROMA – Era a 20 chilometri da Amatrice, con la figlia Letizia, gravemente disabile, e il marito Salvatore, anche lui con una disabilità motoria. Simona Bellini assicura che “fino a ieri sera non ricordavo nulla di quanto era accaduto”. Ora la memoria inizia a schiarirsi, ma la paura è sempre viva e il dolore aumenta ora dopo ora, perché “tanti amici di lì non ce l’hanno fatta”. Per lei, certo, è stata particolarmente dura: Letizia riesce a muovere solo pochi passi, “l’ho dovuta trascinare sul pavimento per farla scendere dal letto, poi si è sforzata di camminare, con il mio aiuto, fino alla macchina”.
Per fortuna, Salvatore e Simona avevano parlato proprio pochi giorni prima di come dividersi i compiti in caso di un eventuale emergenza: “io avrei pensato a Letizia, mentre lui, che ha seri problemi di equilibrio, si sarebbe occupato di tutto il resto: la luce, il gas, la porta di casa”. Se lo sentiva, Simona. O forse è solo lo zelo e l’abitudine a prevedere il peggio e a prepararsi a tutto, tipica del caregiver. E stamattina ricorda così la terribile nottata tra martedì e mercoledì. “Ero a letto con Letizia e avevo da poco chiuso il portatile, dopo una lunga riunione via chat con il direttivo del Coordinamento delle famiglie con disabili. Mi sono addormentata, per risvegliarmi nel caos totale. Letizia si è svegliata quasi subito: l’ho trascinata per le gambe fuori dal letto. Ci ha salvati il fatto di essere al piano terra, in una casa per noi ‘facile’: così non è stato troppo faticoso uscire e arrivare all’auto, mentre Salvatore pensava ad aprirci la porta, prendere le chiavi, chiudere il gas. Vederlo barcollare, con tutte le sue difficoltà, mentre faceva tutto ciò che ci eravamo detti, mi ha commosso. Però il mio pensiero centrale era Letizia”.
Oggi Simona si sente una miracolata. “so che se il sisma ci avesse sorpreso in una casa di tipo diverso, non avremmo avuto scampo: mi sarei stesa accanto a mia figlia ed avrei atteso la morte”. Per questo rivolge ora, con forza e commozione, il suo appello alle istituzioni, perché “si preveda una formazione specifica per le persone addette al soccorso delle famiglie con disabilità, oltre a esercitazioni e simulazioni presso le loro abitazioni”. Ma Simona chiede anche che “si favorisca l’assegnazione delle case popolari al piano terra alla persone con disabilità. Penso alla mia amica Chiara Bonanno, che abita a una piano altissimo di una casa popolare a Roma, con il figlio gravemente disabile, immobilizzato a letto: non riesce ad averne una al piano terra e così, oltre ad essere praticamente prigioniera in casa, va incontro al peggio, in caso di emergenza”.
Così infatti la stessa Chiara racconta, in pochi tratti, il terrore di quella notte, al settimo piano di un palazzo: “Provo terrore ogni volta che c’è un terremoto. Abito con mio figlio, totalmente allettato, al settimo piano di una casa popolare. Il palazzo è edificato sopra un altro palazzo, quindi di fatto sono al 14 esimo piano. Quando la terra si muove, anche a chilometri di distanza, ondeggiamo spaventosamente con porte che sbattono contro i muri e quadri che cadono dalle pareti. L’altra notte – ci racconta – sentivo scappare per le scale i vicini, parlavano a voce alta come se fosse giorno. Anche il mio corpo era pronto per la fuga: il cuore batteva forte, i muscoli irrigiditi, i polmoni in iperventilazione….ma mio figlio non è in grado di fare nessun movimento autonomo, nemmeno quello di mettersi sotto il letto, come certi manuali di emergenza raccomandano. E così mi sono stesa accanto a lui, l’ho abbracciato stretto ed ho serrato gli occhi: qualsiasi cosa fosse successo saremmo restati insieme. C’è un sentimento d’ineluttabile fatalità che mi pervade in quei momenti – riferisce ancora Chiara – So bene che, anche se anche avessi più tempo per reagire, trasportare mio figlio fuori dal palazzo sarebbe una cosa impossibile da fare in breve tempo. L’ascensore è troppo stretto, all’ingresso ci sono delle scale: le pochissime volte che mio figlio è uscito da quando è in queste condizioni, non ce l’avremmo mai fatta se non fosse stato per l’aiuto dei barellieri dell’autoambulanza. Siamo prigionieri in questo palazzo popolare da tanti anni che ormai non speriamo più…” (25 agosto 2016 – da RedattoreSociale)