TORINO – in occasione del G7 un appuntamento per discutere le condizioni del lavoro – 24 settembre-1 ottobre
In occasione delle giornate del G7, ai Murazzi di Torino Proxima organizza un seminario di riflessione su impresa, lavoro e scienza (24 settembre-1 ottobre). In questa occasione sarà affrontato anche il tema della logistica. Il lavoro e le sue trasformazioni saranno al centro di un dibattito che coinvolgerà ospiti nazionali e internazionali, ma soprattutto i lavoratori e le lavoratrici che da troppo tempo sono ai margini della vita pubblica di questo paese.
Logistica, le nuove catene dello sfruttamento è il tiutolo dell’articolo di Simone Fana
— La logistica è uno specchio perfetto dei processi di frantumazione che attraversano il mondo del lavoro. La possibilità di spezzare la catena di sfruttamento non può che avvenire in uno schema in cui le mobilitazioni dal basso si inseriscono in un’azione politica nell’alto
La cronaca degli ultimi mesi è costellata da storie di ordinario sfruttamento del lavoro, che si diffondono in forme capillari lungo le nuove filiere della produzione materiale e immateriale. In questo scenario, il settore della logistica diviene il nodo fisico e simbolico di una trasformazione più ampia che attiene alle strutture regolative e ai rapporti che queste intrattengono con l’intero assetto sociale e produttivo. In una formula particolarmente felice, la logistica è stata definita the physical internet, ossia una gigantesca rete che integra la dimensione della produzione globale con la sfera del consumo. Dai grandi mari internazionali sino alle infrastrutture via terra, la circolazione delle merci, il loro stoccaggio e la distribuzione delle stesse si articola sull’organizzazione di una catena logistica mondiale. In questa centralità si riconoscono i temi di fondo che interrogano la forma e i processi di globalizzazione, dalla disarticolazione e ricomposizione dei luoghi della sovranità politico- statuale sino alla natura dei flussi migratori nella divisione internazionale del lavoro. Fare i conti con il settore della logistica significa, parafrasando Wallerstein, fare i conti con il sistema mondo, collocando lo sguardo oltre i confini ristretti in cui si dimena la discussione politica italiana.
I conflitti che hanno attraversato il nostro paese, dalla vicenda Almaviva, sino allo sciopero dei riders di Foodora, per passare dalle lotte condotte dai lavoratori di Coca Cola e di Hitachi, allo sciopero che ha visto protagonisti i facchini dello stabilimento della Composad a Viadana delineano tratti comuni di una nuova organizzazione del lavoro. La frammentazione del ciclo produttivo, il ricorso al sistema degli appalti, la pronunciata intensificazione dei ritmi concorrono ad alimentare il tasso di conflittualità dei lavoratori e a generare processi di mobilitazione. Tuttavia, la natura frammentata, policentrica e la nuova composizione sociale che vede protagonisti in misura prevalente lavoratori migranti, spiega in parte la difficoltà delle organizzazioni sindacali e dei partiti ad individuare uno sbocco politico alle lotte. Ma al di là delle difficoltà oggettive, legate alla fuoriuscita dei conflitti dalla dimensione del “contratto”, ovvero dalle forme tradizionali di regolazione dei rapporti di lavoro, si riscontrano limiti soggettivi di lettura dei processi in corso e l’individuazione di strumenti di rappresentanza.
In prima battuta occorre riportare lo sguardo sull’intersezione tra la dimensione reticolare del conflitto nella filiera produttiva con la sfera verticale, collocandola nella gerarchia dei processi di divisione internazionale del lavoro. I lavoratori che operano nella filiera logistica sono inseriti in un’organizzazione del lavoro caratterizzata dalla scomposizione sempre più parcellizzata del ciclo produttivo, i cui ritmi sono segnati dall’andamento dell’accumulazione del capitale globale. Un esempio di questo fenomeno è visibile tra gli operatori che lavorano nelle attività marittime portuali. I porti sono i nodi strategici della circolazione delle merci, terminali di collegamento dei flussi globali e luoghi di intersezione tra i mercati internazionali e le economie locali. In questo scenario, il lavoro portuale specie quello collegato alla movimentazione delle merci è diretto dai ritmi impressi dagli scambi commerciali. Le attività di carico e scarico diventano intimamente dipendenti dalle fluttuazioni del ciclo economico, dalle fasi di accelerazione e decelerazione del mercato mondiale. Dentro questo contesto si inserisce la pervasività di un modello di organizzazione del lavoro, segnato dall’intermittenza della domanda di lavoro e dalla funzione esercitata dal lavoro somministrato, come schema di reclutamento della forza lavoro. Il ricorso al massimo di flessibilità nell’organizzazione del lavoro è funzionale a rispondere ai ritmi imposti dalle grandi corporations che governano la catena logistica. L’utilizzo costante di straordinari, l’istituzionalizzazione di forme di mediazione tra domanda e offerta di lavoro dentro l’organizzazione delle attività marittime portuali fotografano il legame profondo tra la dinamica del capitalismo globale e la dimensione del mercato del lavoro. La logistica assume quindi una funzione paradigmatica della fase attuale del processo di globalizzazione, addensando al suo interno le contraddizioni di una fase dello sviluppo capitalistico e aprendo al contempo nuovi terreni di conflitto. Tuttavia, la direzione dei processi di estrazione del valore nella catena della logistica non avviene in un vuoto dell’iniziativa politico-statuale. Lo stato e le istituzioni deputati alla direzione politica dei processi economici non scompaiono, continuando a svolgere una funzione dirimente nell’orientare la collocazione strategica dei territori nei flussi globali. Assumendo la logistica non semplicemente come settore produttivo, ma come ambito di analisi su cui collocare le trasformazioni nell’assetto economico e politico, è possibile intuire i mutamenti che avvengono nelle relazioni tra le economie capitalistiche e i rapporti di potere su scala internazionale. Spostando lo sguardo sull’economia nazionale è possibile notare come l’abbandono di una politica industriale orientata a rafforzare il tessuto produttivo abbia condizionato la collocazione subalterna e ancillare del sistema portuale marittimo italiano sul mercato internazionale. Il tentativo condotto dalle classi dirigenti del nostro paese negli ultimi decenni di favorire una transizione della nostra struttura socio-economica, da una crescita trainata dai salari ad uno sviluppo dipendente dalla domanda estera, ha indebolito il ruolo strategico del nostro paese. Le vicende che in questi anni stanno interessando il sito produttivo di Piombino e le attività del porto di Livorno dimostrano una tendenza a rescindere il rapporto virtuoso tra economia e territorio, abbandonando lo spazio nazionale all’afflusso di capitali stranieri.
In questo schema si colloca la disarticolazione dell’organizzazione della produzione che accompagna intere fette dell’apparato produttivo italiano. La centralità delle multinazionali nella frammentazione degli assetti territoriali è evidente nei casi che hanno riguardato le lotte dei facchini di Amazon a Piacenza o ancora le mobilitazioni dei lavoratori dello stabilimento Coca Cola di Nogara o Hitachi di Napoli. Questi conflitti esprimono una contraddizione che vive nello sviluppo del capitalismo globalizzato, in cui la concentrazione del potere economico e finanziario a monte della catena di comando convive con la frantumazione a valle dei processi di lavoro. Alla rapida ascesa degli oligopoli nel mercato internazionale si accompagna la disarticolazione della filiera produttiva, in cui il ciclo di accumulazione capitalistico scarica le tensioni sulle periferie del modello produttivo. Quello che sta avvenendo è una vera e propria rivoluzione della geografia produttiva, un fenomeno che presenta particolare interesse nei contesti socio-economici in cui trovava ampia diffusione il sistema delle piccole imprese organizzate su distretti industriali. Recenti studi sull’impatto dei grandi marchi internazionali negli assetti produttivi locali dimostrano come gli ecosistemi territoriali abbiano mutato pelle, divenendo un’infrastruttura mobile, funzionale a dare piena agibilità al ciclo di accumulazione dei grandi gruppi multinazionali. In questa dinamica si esprimono due processi apparentemente contraddittori: da una parte l’espulsione di imprese localizzate sul territorio e il conseguente processo di proletarizzazione della forza lavoro; dall’altra l’ingresso di nuovi aggregazioni produttive che si situano dentro un’organizzazione della produzione sensibile alla competizione di prezzo. L’avvento di cooperative di subfornitura, che operano in specifici segmenti del processo di lavoro o la nascita di nuove imprese a capitale straniero si collocano dentro queste trasformazioni.
In questo scenario il ricorso alle piattaforme digitali e l’introduzione di nuove tecnologie di gestione dei processi di lavoro amplifica la tendenza delle grandi compagnie mondiali ad eludere le forme tradizionali di controllo sull’organizzazione del lavoro. L’uso dei dispositivi digitali sostituisce i meccanismi tradizionali di comando sulla forza lavoro, valorizzando una separazione tra lavoro e impresa e indebolendo i meccanismi tradizionali di rappresentanza del conflitto capitale-lavoro. Tuttavia, la presunta neutralità di questi processi viene costantemente smascherata dalla moltiplicazione delle mobilitazioni che interessano intere fasce di lavoratori che operano nella c.d. “economia dei lavoretti”. La mobilitazione che ha visto solo qualche giorno fa protagonisti i fattorini di Deliveroo a Milano ne è una conferma.
La possibilità di spezzare la catena di sfruttamento che coinvolge interi segmenti della forza lavoro non può che avvenire in uno schema in cui le mobilitazioni dal basso si inseriscano in un’azione politica nell’alto, capace non solo di dare supporto alle lotte ma di inserirle dentro un progetto politico di trasformazione dello spazio economico e produttivo. (31 luglio 2017)