Un altro genere di democrazia. Donne divergenti rispetto al mainstream globale
Immaginiamo una piazza telematica collegata a tante altre piazze telematiche in vari luoghi del mondo. Una piazza policentrica, ma simbolicamente al centro della città-mondo, dove convergono, s’intrecciano e rifluiscono parole, racconti e opinioni dall’altra faccia della luna, quella che normalmente non si vede e non ha voce. Immaginiamo insomma di riprodurre su ampia scala lo stesso principio delle social street: collegamenti virtuali che producono eventi reali. Una sorta di assemblea permanente, una trama in continua auto-costruzione, creata da donne divergenti rispetto al mainstream globale. Oggi forse gli unici, possibili soggetti di verità e di trasformazione.
Ma questo è un sogno, mi dicono le amiche in riunione. Svegliati, non si può fare. Questa è una babele! Pensa alla difficoltà di comunicare in tante lingue diverse… E noi italiane le lingue le mastichiamo così poco. Poi i problemi tecnici, difficoltà di connessione, non tutte sanno usare questi nuovi strumenti, Skype, streaming… Insomma, mi dicono, sei la solita visionaria. E io lo riconosco, è vero, è tutto vero.
Eppure siamo tante, in ogni luogo del mondo, a non riconoscerci nei venti di guerra che da capo tornano a soffiare (ma in realtà non hanno mai smesso). Non siamo noi sole, naturalmente, anche tanti uomini per fortuna odiano gli eserciti, le armi e le guerre. Tuttavia molte di noi non hanno in mente solo una cultura differente, ma proprio un altro genere di democrazia simile a quella che Vandana Shiva chiama “democrazia della terra”. Un genere di democrazia che non usi la guerra come modello di ogni rapporto, tra persone o tra comunità organizzate.
Naturalmente, ricominciare a pensare la democrazia, a partire dalle premesse che un lontano giorno furono stabilite da sommi pensatori greci odiatori del genere femminile, non è uno scherzo. Ripensare tutte le forme di partecipazione e rappresentanza. Rimettere in discussione i valori, le priorità, le scelte produttive e il senso stesso dell’economia, falsata finora dalla rimozione di quel pilastro invisibile che è l’economia di cura e di riproduzione della vita. Un compito immane. Tuttavia, queste cose già stanno nel dna del femminismo dei passati decenni, anche se finora non siamo riuscite a coagularle in una forza di cambiamento.
Nel mondo contemporaneo le lotte femministe hanno rivoluzionato moltissimi aspetti della vita sociale, e la condizione delle donne in gran parte è cambiata. Ma non abbiamo scalfito il nucleo profondo di questo sistema e di questo ordine simbolico, che ancora governa gli eventi, i rapporti, le politiche e ogni cosa con gli strumenti della guerra e della violenza, ben sapendo che sempre più spesso la guerra prende la forma dell’economia e dell’ingiustizia sociale.
Ora che il sistema di potere patriarcale ha mostrato il suo fallimento, forse è giunto il tempo di far valere questa differente idea di democrazia come nuovo principio ordinatore della vita sulla Terra. Fin troppi millenni sono passati, a partire dall’invasione dei guerrieri indoeuropei Kurgan proprio in quella che oggi si chiama Ucraina, come ci ha spiegato con i suoi illuminanti studi Marija Gimbutas, descrivendo le precedenti società distrutte da quell’attacco, probabilmente pacifiche e probabilmente paritarie. Ma se vogliamo parlare di tempi più vicini, pensiamo ad esempio al Seicento, quando l’imporsi di una concezione meccanicista della vita e del mondo ha impoverito il pianeta e ha mercificato ogni relazione, prima fra tutte quella con il femminile. Oggi ne vediamo con più chiarezza gli effetti.
Come fare dunque a togliere parola agli eredi e depositari di una distruttiva concezione del mondo che incessantemente si rinnova dietro maschere bugiarde, sbarrando la strada a ogni vera trasformazione? Chi oggi può dire parole diverse, se non quelle donne che con il loro sguardo differente hanno maturato la consapevolezza e gli strumenti culturali necessari a un cambiamento di direzione della storia? Certo, non è purtroppo nelle nostre mani la possibilità di fermare seduta stante le guerre in atto ed eliminare in un colpo solo eserciti e armi – anche se è necessario continuare a esigerlo – ma è nelle nostre possibilità, purché lo vogliamo, riprendere il filo di una cultura non sessista e nonviolenta, totalmente rovesciata rispetto a quella imperante.
Decostruire il castello di menzogne che circonda la narrazione ufficiale degli eventi potrebbe essere il primo passo. Mille e mille storie di vita alternativa ovunque si stanno moltiplicando, a testimonianza del fatto che un altro mondo è possibile. Ma il silenzio su di esse impedisce di collegarle in un unico arazzo e di farne capire il valore e l’importanza. E nelle guerre sono troppo fugaci le voci dei civili, colti nella fuga e nella disperazione. L’insieme dei fatti visti dalla parte della cittadinanza resta oscuro. Anche le preziose testimonianze spontanee trasmesse tramite i social media restano solo frammenti.
Un’antica leggenda parla di un’isola sommersa da tempo immemorabile che un giorno riaffiorerà, cambiando le sorti del mondo. Dicono che le leggende abbiano sempre un fondo di verità. Proviamo allora a usare a modo nostro quegli strumenti di connessione e informazione che veicolano la rappresentazione della realtà, influenzando l’opinione comune. Collegando in modo sistematico le nostre reti già esistenti, potremo scoprire che abbiamo anche noi una grande forza comunicativa e che possiamo riuscire a usarla per far emergere un’altra narrazione dei fatti e soprattutto altre opinioni sulle scelte da fare. Altri sguardi, altre strade.
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