UN FILM PER LA VITA: STILL LIFE
Natale, tempo di solitudine per molti. Un film può aiutare a sentire di nuovo la spinta verso la vita. Per chi non l’avesse ancora visto, Still life è uno di questi film, un piccolo gioiello di poesia e umanità scritto e girato da Uberto Pasolini che è il produttore di questo e di altri film famosi come Full Monty e Tentazioni di Venere.
Un canto “natalizio”, Amazing Grace – “Incredibile grazia, quale dolce suono/ha salvato un miserabile come me/una volta ero perso ma ora sono ritrovato, /ero cieco, ma adesso vedo… ”- annuncia l’inizio di questa storia. Nella cappella di un piccolo cimitero è in corso un funerale; gli unici presenti sono il prete officiante e un uomo dalla faccia gentile che indossa un anonimo impermeabile grigio fumo e ha le mani incrociate davanti. La scena cambia, vediamo altre chiese, altri riti ma sempre lui, il signor John May, impiegato comunale il cui lavoro è di rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine. Dato che i parenti sono solitamente indisponibili o irrecuperabili, è lui a organizzare il funerale, scegliere la bara, assistere alla cremazione. Il signor May mette amore nel suo lavoro e immaginazione; i necrologi che scrive inventano vite piene di vita grazie agli oggetti ritrovati sulla scena della morte: una collana bella anche se di poco valore, un rossetto, una foto spensierata che ritrae il morto durante una vacanza di chissà quanti anni prima o un animale domestico.
Il signor May vive in totale solitudine ma non ne sente il peso perché la sua vita è apparentemente piena: ha un lavoro che lo coinvolge, i colleghi di lavoro – quelli del cimitero, il prete, l’addetto alla stanza crematoria, tutti legati alla morte – hanno con lui un rapporto amichevole. Con nessuno di loro però il signor May è realmente in intimità; la casa, specchio del suo vero sé, è come morta. Lo vediamo mentre si apparecchia la tavola con cura meticolosa per mangiare la solita scatoletta di tonno oppure sistema i cd per i funerali o dispone nell’album dei ricordi le foto dei morti come se fossero i suoi unici congiunti. Le abitudini -rituali della solitudine- lo anestetizzano impedendogli di avvertire la sua condizione.
La sua vita cambia all’improvviso. Il capufficio decide di velocizzare il lavoro che riguarda le persone trovate morte senza che nessuno reclami il cadavere e il signor May viene licenziato. Tagliato come un ramo morto perché i funerali sono una perdita di tempo. La filosofia del dirigente è, infatti, la negazione: “I morti sono morti, i funerali sono per i vivi. Se non si trova nessuno, non soffre nessuno. Insomma, per chi rimane forse è meglio non sapere; niente funerale né tristezza né lacrime”.
Il signor May obbedisce, salvo chiedere al dirigente di occuparsi fino alla fine del suo ultimo caso. Lo farà da licenziato, in forma non a caso privata. Scopre infatti che il morto era, da vivo, lo sconosciuto dirimpettaio di casa nelle cui finestre ormai chiuse può rispecchiarsi.
Grazie a quest’ultimo caso, il signor May esce dalle sue abitudini mortifere e inizia un percorso di socializzazione che è anche un risveglio dei sensi. Assapora una cioccolata calda invece del solito tè nero perché consigliata dalla barista; sorseggia una bottiglia di whiskey insieme a due sconosciuti compagni di sbronze del morto; si prepara un pesce invece della solita scatoletta di tonno; incontra Kelly, la figlia del defunto, con cui entra subito in sintonia. Al suo ultimo “amico” cede anche il pezzo di terra cimiteriale scelto accuratamente per il suo futuro di morto, un posto panoramico dove cresce un albero per fare ombra.
Ma tutto ciò è sufficiente a cambiare veramente la vita solitaria del signor May dato che, a conclusione del lavoro, lo aspetta il vuoto creato dall’inaspettata perdita di quell’unica cosa che la rendeva viva?
May fa l’impossibile per offrire al morto la presenza degli amici e dei parenti ma è il suo ultimo caso, così si prepara per il finale. La macchina da presa inquadra il volto di May e quel lungo sguardo in cui sembrano passare speranza, dubbio, paura, dolore, desiderio. Poi, l’incontro/impatto con il destino che anticipa il finale del film pieno di sorprendente poesia.
Attraverso l’abile sceneggiatura di Uberto Pasolini, lo spettatore scopre che la solitudine si può costruire anche attraverso un’esistenza vissuta intensamente però “scomposta” in tanti pezzi di vita. L’ultimo caso del signor May è infatti quello di un uomo problematico che ha sistematicamente spezzato tutti i legami chiudendo la “vecchia” vita e immergendosi in quella “nuova”: vita vissuta nell’oggi, negando passato e affetti- moglie, figlia, amici e colleghi di lavoro- lasciando irrisolti i conflitti, sottraendosi al dolore che scaturisce da ogni distacco.
Forse, lascia intendere il film –grazie ad un insistito rispecchiamento del signor May nella finestra del dirimpettaio defunto- anche la solitudine dell’organizzatore di funerali così pieno di pietas verso i morti ma non altrettanto verso se stesso deriva dalle chiusure definitive che lo hanno condotto a un rigido e progressivo isolamento.
La psicoanalista Judith Viorst nel suo interessante saggio Distacchi. Gli affetti, le illusioni, i legami e i sogni impossibili a cui tutti noi dobbiamo rinunciare per crescere dice che “…cominciare a rendersi conto di come le risposte alla perdita abbiano forgiato la nostra vita può essere l’inizio della saggezza e di un cambiamento ricco di promesse”.
Still life è un film che parla di morte e solitudine eppure paradossalmente attiva un forte senso di amore per il prossimo e se – come dice lo stesso regista- anche una sola persona dopo aver visto questo film, si sente spinto a conoscere il proprio vicino e, magari, invitarlo a bere un bicchiere di vino, ne sarà valsa la pena.
Still life ha ricevuto riconoscimenti e numerosi premi tra cui il Premio Orizzonti per la migliore regia al Festival di Venezia (2014) grazie anche alla magistrale interpretazione di Eddie Marsan nei panni del signor May.