Un muro millenario. l’esperienza della Sezione femminista Teresa Noce
Fra i tanti muri dell’attualità (quello di Israele contro i palestinesi, degli USA contro i messicani, dell’Unione Europea contro i migranti), tutti eretti dal Nord contro il Sud del mondo, uno, millenario, interno a tutte le civiltà, scandaloso soprattutto nei paesi che si assumono il ruolo di esportatori di democrazia, uno si mantiene saldo: è quello millenario eretto dallo strapotere dell’Uno, quello che impedisce alle donne di partecipare al governo della cosa pubblica in tutti i settori che contano per il vivere associato.Gli spiriti critici più avvertiti hanno notato che, caduto il muro di Berlino nel novembre 1989, le previste sorti felici e progressive di benessere generalizzato nella imperturbata pace della democrazia libera e diffusa a Oriente come a Occidente, non si sono per nulla verificate.
_ Al contrario, il modello liberale vittorioso su quello socialista ha prodotto il liberismo capitalista più sfrenato, l’{economia canaglia} (Loretta Napoleoni. Il Saggiatore 2008) guidata, al di fuori di vincoli e controlli statali, da organizzazioni transnazionali criminose dedite allo sfruttamento planetario di esseri umani, fino alla schiavitù.
Il dilagare della miseria, creando vantaggi solo per pochissimi, causando ulteriore impoverimento degli Stati poveri, ha prodotto la contrapposizione Sud/Nord che si è sostituita a quella Est/Ovest.
_ A livello internazionale, il venir meno dell’equilibrio bipolare ha incentivato l’unilateralismo statunitense conducendoci nel baratro di guerre infinite.
“Abbiamo perso un sistema internazionale che moderava le guerre e abbiamo visto gettare modelli sociali di integrazione e solidarietà sostituiti dal nulla.”
_ “Guerra distruttrice o sottomissione è la legge che il forte impone al debole. Una eventualità che pareva uscita dalla storia con la sconfitta del nazifascismo, si riproduce con il venir meno del contraltare allo strapotere dell’Uno, uno stravolgimento della democrazia..”
(Angelo D’Orsi “1989” Ponte alle Grazie 2009)
Fra i tanti muri dell’attualità (quello di Israele contro i palestinesi, degli USA contro i messicani, dell’Unione Europea contro i migranti), tutti eretti dal Nord contro il Sud del mondo, uno, millenario, interno a tutte le civiltà, scandaloso soprattutto nei paesi che si assumono il ruolo di esportatori di democrazia, uno si mantiene saldo: è quello millenario eretto dallo strapotere dell’Uno, quello che impedisce alle donne di partecipare al governo della cosa pubblica in tutti i settori che contano per il vivere associato.
E’ il muro più antico e sottostimato fra tutti, quello che ha prodotto e ancora produce l’esilio del sesso femminile dalla sfera pubblica e contemporaneamente dimezza, quindi smentisce qualsiasi ipotesi di democrazia partecipata.
_ Il discorso si applica bene all’ Italia, paese dello sciovinismo al governo, che registra dati infimi di partecipazione femminile, collocandosi al settantanovesimo posto (nel 2008 era al settantaquattresimo) su centotrentaquattro stati considerati, al di sotto di Kazakhgistan e Uzbekstan (ex repubbliche asiatiche dell’URSS), secondo i dati riferiti da Newsweek del 9 novembre 2009.
Appunto questo muro pensarono di sgretolare nel 1990, nel corso di un biennio di grandi cambiamenti, alcune donne del movimento femminista milanese della differenza e altre aderenti al Partito comunista italiano che decisero di intervenire su due aspetti considerati interconnessi: quello femminile e quello comunista.
_ Quanto al primo aspetto, constatavano che le donne, a causa del muro eretto dal monopolio del sesso maschile, agivano nella sfera pubblica come agente di proiezione dei disegni altrui, eterodeterminate; quanto al secondo, ritenevano che la fine dichiarata del comunismo storico non avrebbe certamente posto fine al bisogno di giustizia sociale per sé e per il proprio sesso.
L’iniziativa di fondare una sezione di sole donne fu assunta dalle comuniste con l’obiettivo –condiviso con donne del movimento- di dare al partito l’apporto del pensiero e della pratica politica della differenza sessuale, partendo da una constatazione di realtà: i sessi sono almeno due e nessuno merita di scomparire nella omologazione all’altro, nella tirannia dell’Uno, in questo caso nel partito maschile.
_ L’ipotesi che sorreggeva l’iniziativa era autorizzata da fonti istituzionali autorevoli: le aperture del segretario Berlinguer nel XV congresso (cfr. E. Guerra in Atti del convegno di Ravenna novembre 2004), cui seguì molti anni dopo la Carta delle donne del PCI. Esso trovava aggancio giuridico nella Costituzione (art. 49 “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).
Seguiva, inoltre, la scia del pensiero luminoso di Rosa Luxemburg ne {La rivoluzione russa} “Solo una vita fermentante senza impedimenti immagina mille forme nuove, improvvisa, emana forza creatrice…” e inoltre “la libertà solo per i seguaci di un governo o per i membri di un partito, per numerosi che possano essere, non è libertà. La libertà è sempre e unicamente la libertà di chi la pensa diversamente. Non per fanatismo di giustizia, ma perché tutto ciò che di educativo, salutare e purificatore deriva dalla libertà politica, dipende da questa condizione…”
Il pensiero della differenza sessuale contribuiva con la teoria del conflitto che non annienta l’altro, ma lo riconosce, valorizza due soggetti dotati di bisogni e desideri propri, consapevole del limite che induce a ricercare le mediazioni opportune.
_ Agire un conflitto che riconosce esistenza all’altro da sé, significa anche praticare una politica che ha come obiettivo una società plurale che si conforma su esperienze di vita molteplici, contesta il modello monolitico che ci viene offerto preconfezionato e come immutabile, consente di dare vita ad un modello di società che prevede al suo interno cittadinanze plurime.
Il pensiero e la pratica politica della differenza sessuale appariva utile a contrastare il modello organizzativo dei partiti, quindi della democrazia a sovranità indivisa (dell’Uno), agendo criticamente verso le istituzioni definite rappresentative, mai veramente rappresentative delle donne, neppure attraverso le scarse cooptate negli apparati del potere maschile.
Nell’incrocio fra esperienze femminili diverse, portate a riconoscersi e a interrogarsi reciprocamente, si pose la sezione femminista Teresa Noce, fondata nel luglio 1990 sulla base, fra le altre, di queste considerazioni: “Partito e sindacato, per come li abbiamo conosciuti fin’ora, non registrano la differenza sessuale, occultano il conflitto di sesso e, in conseguenza, si presentano come istituzioni monosessuate che non sollecitano sufficientemente e non indirizzano ai fini di una modificazione incisiva della realtà neppure il conflitto di classe. Nella sezione e, attraverso la sezione, nel partito, intendiamo affermare una politica che mette in pratica, quindi rende visibile e comunicabile il rapporto fra conflitto di sesso e conflitto di classe, decifra la irriducibilità del primo al secondo, manifesta la dinamica e la necesità di entrambi.
_ La sezione è per noi un luogo nel quale dare concreta esistenza alla elaborazione di sapere e di politica delle donne, nella cornice di libertà che ci assicuriamo attraverso la relazione privilegiata con altre che condividono il nostro progetto”.
Come apparve chiaro fin dalla inaugurazione, molte femministe avrebbero partecipato ai lavori, indipendentemente dal fatto di essere o meno iscritte al partito, sulla base di condivisione delle iniziative, discusse e intraprese nella forma definita “dentro/fuori”.
Da quella sezione, nel vivo delle esperienze, sono venuti approfondimenti e verifiche delle nostre riflessioni su conflitto di classe e conflitto di sesso, giustizia sociale femminile e diritto sessuato del lavoro. Infatti, essa era collocata nella zona Sempione, cuore di una Milano allora molto industrializzata, che però cominciava a mostrare le prime espulsioni massicce di mano d’opera soprattutto femminile. Le iscritte –lavo ratrici e sindacaliste- erano coivolte nei problemi di amiche, compagne, simpatizzanti che non trovavano nell’organizzazione sindacale risposte adeguate.
La pretesa di alcune fra noi era quella di porre un limite alla sofferenza sociale femminile, cercando di trarre dalle regole vigenti affermazioni di riconoscimento almeno parziale dei bisogni e delle aspettative delle donne coinvolte.
_ Intendevamo, cioè, dare vita ad una sezione-strumento, utile alla modificazione dei luoghi sociali – fra essi il partito cui apparteneva- operando una serie di trasgressioni all’ordine gerarchico patriarcale della tradizione, fino a conseguire atti affermativi di una giustizia sociale dei due sessi, basata sul valore cardine della pluralità dei soggetti.
Ci trovammo così ad occuparci di alcuni casi notevoli di espulsione femminile, prioritaria o esclusiva, dai luoghi di lavoro. Ciò che avveniva già allora, malgrado la conclamata stabilità, attraverso l’utilizzo di svariati metodi.
La vicinanza con la Fiat/Alfa Romeo di Portello e di Arese ci metteva a contatto con l’esistenza di discriminazioni sul lavoro a sfavore delle donne negli stabilimenti del milanese e in quelli meridionali di Pomigliano d’Arco.
_ A Milano si trattava di sospensioni in cassa integrazione guadagni a zero ore, anticamera del licenziamento in mobilità, prevalentemente a carico delle donne, stabilmente inquadrate nei livelli professionali più bassi, quindi maggiormente in esubero; a Pomigliano della mancata assunzione di donne dalla lista del collocamento (350 assunti tutti uomini) che vedeva una prevalente presenza femminile fra i disoccupati: erano il sessanta per cento.
Un altro caso notevole fu quello della Imperial Electronics ove, nel passaggio dalla proprietà pubblica (REL) a quella privata (Polly-Peck), le lavoratrici furono dapprima inserite nei reparti più obsoleti, poi messe in mobilità e licenziate a centinaia.
_ Il lavoro conosceva, da sempre, una rigida divisione sessuale con l’attribuzione di superiori mansioni, qualifiche e sviluppo di carriera in via quasi esclusiva per gli addetti di sesso maschile, mansioni dequalificate e blocco di carriera per il personale femminile (la teoria del c.d. secondo stipendio che colpiva tutte, in particolare le donne capo famiglia o single).
_ Per circa tre anni, nell’ambito della sezione Teresa Noce e anche del sindacato di zona, si riuscì a sperimentrare una relazione fra donne che produsse alcuni interventi positivi sotto il profilo della conoscenza, del dibattito sui casi, della partecipazione politica e del sostegno concreto alle ragioni e ai diritti delle donne coinvolte nei processi di ristrutturazione, allora agli albori, che vedevano, purtroppo, un contrasto poco efficace e poco consapevole di sindacato e partito.
Ci toccò, però, di constatare che un apporto autonomo delle donne nel conflitto che pure le riguardava non era considerato affatto un rafforzamento ma, al contrario, inquietava parecchio gli apparati maschili che non mancavano di frapporre ostacoli severi a qualsiasi tentativo di autorganizzazione.
_ L’azione frenante, a volte la disapprovazione esplicita nelle strutture dirigenti del partito cui pure molte di noi partecipavano (io fra quelle: eravamo sovrarappresentate, dicevano i miglioristi milanesi) iniziarono ad aprire contraddizioni fra le donne della sezione finchè, in occasione del fenomeno detto “mani pulite” ne fu deliberata la chiusura con decisione pressocchè unanime. Registravamo il fallimento del progetto.
Cercherò di spiegare che cosa era successo, secondo me. Come dicevo, ci eravamo trovate a scontrarci con gli apparati maschili e a scontare notevoli difficoltà fra noi. Infatti, dei due soggetti sessuati uno non è previsto nell’ordine sociale e la sua affermazione in quell’ordine può essere a volte autorizzata solo se si verifica il sostegno di una reale autorità femminile che sia contestuale al progetto che si persegue collettivamente nello spazio pubblico.
_ L’irriducibilità dell’alternativa fra quanto le donne ritengono desiderabile per sé e quanto gli uomini hanno stabilito per tutte e tutti, pone i termini di un conflitto fra i sessi sul nodo (essenziale) del potere.
Come in ogni luogo sociale, anche nella Sezione Teresa Noce si era posta per le donne l’alternativa conflittuale fra autorità femminile – che sostiene la relazione politica e autorizza progetti autonomi – e potere maschile che informa di sé l’esistente (quindi anche la struttura partitica di appartenenza della Sezione ), affermando l’unicità del proprio disegno.
Nel conflitto, è stata smentita la nostra ipotesi di pratica politica autonoma, imperniata su esperienze, parola, pensiero femminili dotati di autorevolezza sociale.
_ Il perché dell’esito negativo non è stato collettivamente indagato.
Personalmente, ritengo che un nostro errore irrimediabile sia stato quello di giocare le nostre relazioni in modo troppo interno al Partito, in un contesto simbolico esclusivamente maschile (si consideri, a riprova, lo statuto di allora che prevedeva luoghi aggiuntivi di cosiddetto “potere femminile “, quale il Consiglio delle Donne ecc., strumenti utili a fantasticare possibilità per le donne di contare dove nulla esiste, mettendole in disparte rispetto ai veri luoghi decisionali).
Attraverso l’esperienza di questa Sezione non siamo riuscite a creare autorità femminile contestuale sufficiente a modificare l’apparato regolatore delle relazioni fra gli appartenenti al Partito (fra donne e uomini) e siamo rimaste costrette nella struttura di mediazione già data.
Attualmente, non è dato vedere nel Partito Democratico (nè in altri partiti o gruppi) soggettività femminile organizzata, capace di produrre una pratica efficace per quella modificazione radicale di cui tutte le istituzioni e l’intera società mostrano di avere grande bisogno.
_ Mancano ancor oggi in tutti questi contesti sociali, regole almeno parzialmente femminili che contribuiscano a liberare e a mediare i conflitti aperti fra donne e con gli uomini.
Una pratica politica femminista, che ha lasciato alcuni segni parziali di iniziale efficacia, ha tuttavia marcato l’assenza del supporto essenziale: la struttura portante costituita dalle regole femminili prodotte da una relazione privilegiata fra donne giocata nella sfera pubblica.
Il partito era (è) organizzato intorno al concetto di confraternita (tutti i gruppi di sinistra sono così, dice bene Antonietta Fouque in {Le Dèbat} n. 59/1990) che esclude ontologicamente l’alterità femminile e rivendica libertà solo per i fratelli, i veri eguali, ognuno immagine speculare dell’altro.
_ Se questo è vero, allora l’indicazione non può che essere quella di far giocare la nostra estraneità nelle confraternite della sinistra in modo dinamico.
Per far ciò occorre, a mio parere, un gesto di separatezza dall’apparato maschile, un gesto capace di porre un limite alla sua tensione a regolare tutti/e e alla tentazione femminile a farsi regolare.
_ Vedo quel gesto nella creazione di un contesto sociale femminile che pone la misura giudicante e la regola delle mediazioni tra donne e con uomini, quindi, non esclude gli uomini, ma non si rinchiude nella loro misura.
_ Non si richiedono gesti di pura e semplice sottrazione, ma azioni più elaborate.
Si richiede una presa di distanza dalla scena che si gioca tutta nello sguardo che gli uomini si scambiano, riconoscendosi solo fra di loro (ovvero, la misura maschile dei luoghi sociali esistenti) e nel fare ciò si opera per la costruzione di un sistema di misura femminile da elaborare per giungere poi a varare la regola condivisa di quella stessa scena.
_ Naturalmente, poiché a partire dalle nostre relazioni ci proponiamo di agire collettivamente una responsabilità sociale, ci vincoliamo prioritariamente a regole interne al nostro sistema di misura.
E’ questo vincolo che genera la nostra responsabilità che è anche libertà, perché ci consente di agire da soggetti auto (non etero) regolati.
In questo modo, comincerà ad essere e a mostrarsi vero che le regole per stare nel mondo sono prodotte da due o più, certo non da un solo soggetto.
L’esigenza si pone, secondo me, per affermare l’esistenza stessa della democrazia che non sia finzione, pura rappresentazione nel teatrino della visibilità mediatica.
Per dare realtà alla democrazia occorre perseguire l’uscita dalla logica di istituzioni creatrici di obbedienza, conformismo, soggezione ossequiosa alle gerarchie. Occorre ipotizzare la creazione di un ordine evolutivo di regole che si costruiscono tenendo conto del punto di vista di tutti i soggetti in gioco, erodendo il meccanismo di esclusione-emarginazione o inclusione omologante che riduce all’uno e cancella tutti gli altri soggetti.
Nei partiti e nelle aggregazioni sociali mi sembra che la scommessa dell’attualità sia che i soggetti differenti si fronteggino in relazioni conflittuali , che non occultano le differenze; il prodotto del conflitto e della successiva mediazione è il diritto della differenza, quest’ultima essendo, per l’appunto, una relazione.
Per la salvezza collettiva, occorre abbattere il più antico e persistente dei muri, quello eretto dagli uomini per difendere i loro privilegi, un pregiudizio contro le donne, in parte anche introiettato, che rende la forma assunta dalla democrazia bloccata e oligarchica, quindi a-democratica.
Dalla esperienza della sezione femminista Teresa Noce mi è rimasta ferma l’opinione che per porre rimedio al prepotere di pochi, sia più che mai necessario trovare forme di partecipazione che consentano di esercitare la libertà pubblica di concorrere nella diversità alla formazione delle decisioni collettive sulle questioni di giustizia sostanziale che danno forma alla vita di ognuno.
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