Una Biennale con un ‘piccione’ divenuto ‘leone’ e senza Premio Lina Mangiacapre
Questo festival darà da pensare e riflettere molto sui film visti ma anche perché Non è stato possibile assegnare il Premio Lina Mangiacapre. Infatti la giuria composta da Valerio Caprara, Titta Fiore, Simone Manceau e Franco Mariotti non ha ritenuto idoneo alla motivazione del Premio nessun film.
Non si sono visti personaggi di donna (quasi per niente), e ancor meno personaggi di donna soggetti di storia e cultura,nel segno della differenza, differenza di genere innanzitutto che non può essere ridotta a semplice funzionalità di narrazione. Anche quando sono apparsi personaggi femminili propositivi di problematiche e aspetti più strettamente collegati alla donna dell’attuale società o anche del passato come nell’eterno tema della guerra e della sopravvivenza, violenza, ambiente, cibo/spazzatura, amore e lavoro, figli ” sconosciuti “… questi personaggi si perdono poi e svaniscono dietro le esigenze narrative.
Eppure in questa edizione della Biennale è stato privilegiatoil rapporto letteratura /cinema e non è certo in discussione di quanta ispirazione sia la Donna. Ci sono trasposizione di romanzi tra cui ricordiamo: Il Bambino Indaco, L’Urlo e il furore, Cymbeline, Nobi, La realtà dell’Olocausto supera ogni immaginazione, La vita oscena ma anche i tormenti, le sofferenze e le tragedie di personaggi importanti del mondo letterario: Pasolini, Leopardi, Xiao Hong (unica donna), Michel Houellebecq (in veste di attore).
La Biennale è iniziata tra violenza e crisi d’identità, tra il dolore dell’estrema separazione e le ( im)possibili unioni… e poi la guerra ancora e sempre vista in alcuni suoi aspetti meno trattati finora come l’attualissimo Good Kill di Andrew Niccol, dove uno dei fronti è relegato in un comodo ufficio da cui parte in volo la morte in veste di drone.
Questo universo, dove immagini di donne, se appaiono, sono spesso marionette sopra le righe o addirittura esseri incomprensibili e folli, ci fa capire quanto sia necessario che voci di donne si levino a raccontare l’irraccontabile per chi ha l’urgenza e la capacità di rappresentare sempre e solo se stesso e il proprio punto di vista.
Dove sono le registe che possano bilanciare questo monologo ininterrotto perché diventi finalmente dialogo seppure cinematografico ma che almeno si dia respiro e spazio anche ad altro e in qualche modo se il cinema è anche rappresentare i sogni, le utopie, le illusioni… che ben vengano perché l’immaginario deve e può spingere al cambiamento la realtà.
Alcuni film raccontano di ‘cambiamenti’ importanti di realtà negative in positive o almeno decisamente migliorate, sono in parte fantasie ma in un caso è la realtà: “Io sto con la Sposa” ci parla davvero di avvenimenti ripresi nel momento in cui sono avvenuti e che incidono, spero, in un possibile quanto difficile cambiamento di atteggiamento sociale verso chi cerca scampo dall’orrore di guerre e dittature ,e fugge in paesi come il nostro e non trova se non la morte per annegamento.
In “Io sto con la Sposa” di Gabriele Del Grande , Antonio Augugliaro e Khaled Soliman, fortunatamente avviene un miracolo di coraggio e fantasia: il film è un atto politico di fratellanza e solidarietà; un diario di viaggio dalla Siria alla Svezia per cambiare destini e realtà.
Anche nel film “Before I disappear ” di Shawn Christens, un cambiamento di destino avviene ad opera di una bambina, inizialmente cliché di brava scolaretta e figlia, che trasforma uno zio ‘perdente’ su tuti i fronti in un uomo con dignità ,che recupera sentimenti e valori della vita, quella vita che prima di conoscerla voleva abbandonare..come? lo obbliga a prendersi cura di lei e della sua fragilità trasmettendogli fiducia e senso di responsabilità: solo chi si è completamento perso può impunemente restare inerte di fronte all’innocenza e lui sceglie di averne cura in un processo quasi di purificazione,dando ascolto alla propria coscienza.
Il tema del suicidio o anche l’incapacità al suicidio è apparso in altri film come ne “ La Vita Oscena “ di Renato De Maria o “ Near Death Experience “ di Benoit Delépine e Gustave Kerven con Michel Houellebecq, o in “Birdman” e in “Il giovane favoloso” di Mario Martone dove Leopardi arriva a dire : ‘ il mio organismo è così debole che è incapace di produrre una malattia che mi possa ammazzare’ ed è comunque un tema caro al mondo letterario e spesso alla vita di chi quel mondo lo crea.
Al dilemma se sia possibile l’uso della violenza come reazione alla corruzione e alla sopraffazione per arginarle o cambiare lo stato ingiusto delle cose, la risposta é la stessa: no impossibile!
Kim Ki-duck, nel suo `One on one`, dimostra questa impossibilità a suo modo con la solita originale e direi maniacale esposizione di cruenti e sanguinolente torture, tutte inflitte per ‘giusta causa’ ma i seguaci del leader, quello che assolda miserevoli e frustrati esseri alla deriva, con ben poche speranze, al crescendo della sua ferocia crudeltà, si ribellano e cominciano a dubitare che quella possa essere la via giusta per ripulire la società e farsi giustizia.
Anche in ‘The President‘ di Moshen Makhmalbaf, la fuga di un immaginario quanto verosimile dittatore con il suo nipotino, diventa viaggio nella devastazione e miseria e sofferenza che la sua avidità ha permesso e nella devastazione e miseria morale e spirituale che la reazione eguale e contraria di violenza e soprusi sempre procura in risposta. Ma anche qui voci si leveranno a gridare “basta violenza! non porta da nessuna parte! “.
Il più terribile aspetto nella ricerca e riflessione su ciò che l’efferatezza umana genera è mostrato nel documentario “ The Look of silence” di Joshua Oppenheimer – Premio speciale della Giuria – dove scoprire la vicinanza quasi la convivenza, con gli aguzzini dei tuoi cari, aguzzini che ancora si vantano di come abbiano sgozzato le proprie vittime, crea uno sconcerto e un’amarezza tali da prevalere anche sul desiderio di vendetta.
Ma forse l’uomo, il maschio, trova davvero la sua identità e certezza proprio nel gioco assurdo della guerra – non importa su quale fronte combatta -ciò che importa è il suo essere eroe anche se di una guerra persa, ciò che conta è continuare ad avere o non avere una coscienza e un’etica anche nella totale solitudine, unico testimone di se stesso come in “ Loin des hommes ” di David Oelhoffen o in “ Nobi “ di Shinya Tsukamoto dove il nostro ‘eroe’ vaga in una stupenda foresta devastata da fiamme e fumo,coperta di membra dilaniate di soldati e lotta per non cedere al richiamo di una sopravvivenza che lo spingerebbe persino al cannibalismo, tra suoni assordanti di frantumazione di carne e ossa e esplosioni di bombe .
Per la donna (compresa di solito sotto la voce ‘civili ‘ ma per l’Olocausto ‘ ebrea’) la guerra può solo essere altro, come “ Tsili “ di Amos Gitai ci mostra: una realtà che ti fa vivere in un quotidiano dove non c’è mai possibilità di tregua alla paura,all’angoscia della sopravvivenza; dove non c’è scampo all’aggressione e alla violenza di qualunque genere essa sia e la tua coscienza sa che non ha Mai voluto né immaginato tutto questo e neanche si chiede perché e chi ne ha colpa perché lei si sente semplicemente ostaggio di una violenza gratuita e incomprensibile.
Sicuro invece che l ‘avanzare dell’età può portare il maschio a sentirsi perso con la messa in discussione persino del proprio talento o successo: così avviene in ” Birdman ” di Alejandro Inarritu e in” The Humbling” di Barry Levinson dove i due protagonisti, in piena crisi di identità, esprimono il complesso e ossessivo mondo che li tormenta e intorno le presenze femminili ancora una volta sono funzionali al loro universo: pro o contro,alleate o acerrime nemiche, rifugio e pausa al tormento o fastidio e disturbo ulteriore.
In tutto questo caos il film forse che ci appare quasi sereno e semplicemente naturale nel suo svolgersi è il film “ Mita Towa “ di Sharon Maymon e Tal Granit dove uno strano inventore di cose ‘inutili’ aiutato da un ristretto gruppo di amici (tra cui anche un’amica) elabora una specie di macchinario per l’eutanasia di modo che solo l’interessato/a possa decidere da solo e dopo una dichiarazione video il momento per metterlo in moto e andarsene senza dolore. Resta l’atroce dolore della separazione ma vince l’amore sull’egoismo di volere accanto a tutti i costi chi non se la sente più di sopportare la sofferenza della malattia irreversibile e l’impossibilità a condividere la vita ;c’è poesia,silenzio,solidarietà,amicizia,ironia e anche sorriso e gioco …
Il paradosso è che proprio un film sulla Morte, quella vera, perché, per eutanasia o non, si è quasi giunti al capolinea e la ‘separazione’ è inevitabile, parla molto più di Vita e di Armonia, di emozioni senza falsi sentimentalismi e finzioni di qualunque altro film che affronti anche temi apparentemente meno scioccanti.
Basta pensare a “ 99 Homes “ di Ramin Bahrani o “ Kreditis Limiti “ di Salomé Alexi dove il problema della casa diventa tragedia immane in uno stillicidio insopportabile di manipolazioni e cavilli bancari di un sistema estremamente corrotto dove il limite tra realtà e finzione non esiste anzi la realtà è probabilmente ‘peggiore’ di qualunque fantasia.
Così stranamente abbiamo ‘navigato’ in una lagunare pellicola quasi ininterrotta di miserie umane,tra spinte letterarie ad un suicidio difficile ma, quasi unica soluzione, e la messa in mostra dell’orrore della guerra con le sue pur nuove facce non meno inquietanti e crudeli e la violenza quotidiana e la sopraffazione dei pochi sui molti, dei potenti sui deboli che, se e quando, avviene uno scambio di ruoli, diventano ancora più feroci e comunque su tutto vince il grigiore di vite all’insegna dell’ingiustizia e sfruttamento continui dove alzare la testa è inutile, per cui ancora e ancora non resta che il suicidio reale,o peggio quello morale e spirituale o il colpo di testa che porta fuori di testa. E questa parte finale direi che riguarda soprattutto noi che vediamo scorrere tanta ‘reale’ sofferenza,tanto veritiero accadere che accade infatti ogni giorno e restiamo impotenti o volutamente ignoranti o inutilmente toccati emotivamente.
Datemi una speranza, vi prego, se anche “I Nostri Ragazzi” (di Ivano De Matteo)sono quei mostri senza cuore né cervello,vi prego che voci di donna si levino ad arginare tanto male, sullo schermo e ancor più nella vita.
Se film come “ La Trattativa “ di cui la stessa autrice Sabina Guzzanti dichiara ,servono “ad affrontare la storia al di là delle vicende processuali, allargare la consapevolezza intorno a questi temi”, va bene, ampliamo la consapevolezza, ma narriamo anche di altri mondi possibili e di altri universi dove la vita canta e non soccombe a tanta bruttura.
Forse è davvero il momento che l’uomo, il maschio, si faccia da parte per lasciar dire e raccontare altre storie e altre possibilità perché, in una rosa così ampia di film, non potere assegnare un Premio destinato a quello che presenti un personaggio di donna forte, determinato, ricco di sentimenti e valori che non siano solo funzionali alla vita e al pensiero dell’universo maschile con i suoi problemi, le sue guerre, le sue performance artistiche e letterarie e filosofiche … dovrebbe inquietare molto , e non solo noi donne!
In fondo il Leone d’oro (assegnato a Roy Andersson per il suo “ A pigeon sat on a branch reflecting on existence “ )non poteva che andare al più spietato e lucido dei film presenti a mostrare la decadenza del genere umano e farlo dall’ottica di un piccione appollaiato su un ramo forse è già la ricerca di un nuovo punto di vista che possa far ‘riflettere’ e cogliere tutto il paradossale e inutile modo di vivere del presunto ‘homo sapiens’.
E chiudiamo con le parole dell’attrice Frances Mc Dormand, premio ‘Tribute to visionary talent’ e presente a Venezia con la miniserie “ Olive Kitteridge “(in onda a gennaio su Sky), di cui è attrice e produttrice: ‘Ho 57 anni. Dai tempi di Blood simple,ho costruito la mia carriera con ruoli da comprimaria,facendo da spalla al protagonista maschile. Non è facile trovare ruoli forti da donna al cinema,e quando lo sono….sono semplicemente ruoli da uomo fatti interpretare a una donna …’
Lo sappiamo Hollywood non può fare a meno di ‘dive’ ma non ama le donne … solo Hollywood?!
Teresa Mangiacapra (Niobe)
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