Una guerra che non vogliamo vedere, una guerra contro i migranti
Stefano Galieni
4 novembre 2016
Si sta combattendo su fronti diversi, spesso celati dal rumore di una falsa informazione. Una guerra che si combatte provocando vittime e dolori ma che resta lontana dalla falsa vita raccontata con cui ci annebbiano la vista. Una guerra contro i migranti, contro chi li sostiene, contro chi come molti di loro è sfruttato e maltrattato, contro chi non dove godere dei frutti della più grande accumulazione di risorse e di capitale, di tutti i tempi.
Ed è duro per chi, come chi scrive, in osservanza alla Costituzione ma anche a imperativi morali “ripudia la guerra”, dover utilizzare termini militari. Difficile trovarne altri. Una guerra che inizia lontana dagli occhi, nell’Africa Sub Sahariana, dove si finanziano dittatori ed oppressori, in quella Turchia che riceve soldi per divenire carcere a cielo aperto, in quella lontana Asia dove fondamentalismi e disastri ambientali, rendono impossibile continuare a vivere, nella vicina Libia, condannata a divenire terreno di sperimentazione della capacità militare europea.
E prosegue in quel Mediterraneo mai come in questo cupo 2016 rosso di sangue innocente, fossa comune in cui si perde la memoria di intere famiglie. Mentre questo articolo viene scritto giunge notizia dell’ennesimo naufragio. Non è il mare ad uccidere ma sono le leggi degli uomini e se muoiono lontani dalle coste italiche, il silenzio cala come una cappa di piombo, la notizia non merita neanche poche righe in un angolo di pagina.
E continua in quell’Europa orientale dove il muro e il filo spinato sono divenuti paradigma del modo di governare e ottenere consenso. Un virus che ormai contamina le sedicenti democrazie stabili del continente: Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia.
Oggi il Bel Paese si sofferma sulle 12 donne e gli 8 bambini, cacciati a suon di barricate a Gorino, paese del polesine dove si la crisi ha colpito ma in cui si continua a cercare i responsabili nelle persone più vulnerabili. Lo chiamiamo razzismo? Anche, ma sarebbe troppo limitante. Chiamiamolo assenza di coraggio, incapacità conclamata che non trova linfa solo lì ma in buona parte del continente ad affrontare i veri responsabili dell’impoverimento. Avrebbe cambiato la vita di un paese la presenza di 20 persone per pochi mesi?
Avrebbero potuto portare vita laddove l’età media è alta, l’inverno è fatto di pioggia e nebbia mentre l’estate di zanzare e lavoro duro. Avrebbero portato un po’ di gioia, avrebbero fatto sentire meno solo chi è abituato ad essere abbandonato, ma hanno prevalso egoismi stupidi e fallimentari.
E viene da dirlo agli abitanti di Gorino. Provate ad andare in paesi lasciati da soli come il vostro, a Sutera, nell’entroterra siciliano, a Camini, nella famigerata Locride, insieme a Riace divenuta simbolo di un mondo e di un modo diverso di guardare il mondo.
Andate laddove la miseria e la disoccupazione, l’emigrazione e la carenza di beni costituiscono la norma. Troverete uomini e donne che hanno fatto dell’incontro una virtù, come è accaduto nella Roma meticcia delle occupazioni di case che salvano dalla vita in strada. Un ordine delle cose diverso dove la guerra si interrompe.
Ma la guerra si respira nelle tante strutture sorte per definire una finta dimensione di accoglienza, negli Hotspot, dove si viene rinchiusi e divisi per provenienza nazionale e non si è messi in condizione di chiedere protezione o asilo e si viene illusi invece di averlo, a parole, fatto.
La guerra si respira nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) gestiti in emergenza dalle prefetture, stracolmi spesso e la cui gestione è troppe volte affidata agli amici degli amici che casualmente coincidono con i padroni di Mafia Capitale. Si respira nei CARA dove si attende da mesi e inutilmente di poter essere trasferiti in un altro paese, perché l’Italia è divenuta sinonimo di assenza di futuro e di certezza del diritto. Si respira nei CIE in cui le poche vite ancora abbandonate sono lasciate in un parcheggio che presuppone un prossimo rimpatrio forzate.
Si vede nella tristezza delle ragazzine messe in vendita agli appetiti dei perbenisti maschi italiani agli angoli delle strade, nelle periferie delle metropoli o in appartamenti nei paesi. Si scorge nelle fughe eterne dei minorenni che scappano dai centri loro assegnati alla ricerca di libertà e fuga, che pagano con ogni strumento di cui dispongono, pochi giorni di cibo o di viaggio verso il nord delle luci e del benessere.
A 13 anni hanno visto quello che buona parte del paese opulento non vedrà forse mai. Eppure meglio pensare che siano loro i nemici, loro il pericolo, non quelle poche dinastie che detengono il 60% delle risorse disponibili. La guerra la si vede nei luoghi del nuovo – vecchio schiavismo.
Nei ghetti in cui è rinchiuso chi è sfruttato in campagna, in quelli apparentemente più lucidi delle cooperative della logistica dove si può anche essere uccisi con un tir se ci si oppone al mancato rispetto dei contratti.
Ma è guerra anche quella che nega cittadinanza, diritto di voto, stabilità a chi da tanti anni vive in questo povero e misero paese, una guerra più infida il cui slogan è: «Mi servono le tue braccia ma non posso accettare che tu abbia i miei stessi diritti». Oltre 5 milioni di persone per cui la nostra decantata democrazia semplicemente è negata.
E si potrebbe dire cosa importa? Si tratta di una guerra che non mi vedrà mai vittima. Grande errore, non solo perché negando i diritti e abbassando i salari di chi non è autoctono Doc, si tolgono spazi e possibilità a tutti. Nelle campagne meridionali sono ormai tornate a lavorare e a morire le donne italiane i cui mariti o padri hanno perso lavoro.
Nei cantieri, nelle aziende, soprattutto piccole, si preferisce scegliere il lavoratore da poter cacciar via con un semplice licenziamento che lo rende “irregolare”, prossimo alla deportazione. Colpa di chi lavora ad un salario finto o più basso o colpa di chi promulga e mantiene leggi che creano le condizioni di tali disparità.
E la guerra colpisce chi si oppone chi alza la schiena, chi sciopera e lotta ma anche chi alle frontiere si rende colpevole del reato di solidarietà, di fornire cibo, acqua, soccorso. Eroi che vengono trattati come banditi, quella che è la meglio gioventù di questo paese morente, quelli che potrebbero risollevarci e invece vengono colpiti, in nome del fatto che costruiscono legami con chi arriva.
I No Border di Ventimiglia, colpiti da ordinanze e fogli di via di stampo fascista, i solidali di Como e di Udine, quelli in Sicilia, a Roma, in Puglia. Laddove si dà tanto e ampio risalto al crescere della rabbia xenofoba, si rimuove dal panorama visivo, le tante e i tanti che, al di là dell’ideologia di cui si è portatori, scelgono di schierarsi dalla parte degli ultimi non per semplice solidarietà ma in quanto consapevoli che la salvezza del loro futuro passa per la salvezza di chi arriva, alla faccia delle immonde barriere realizzate da questa finta Europa.
Il sistema della cosiddetta accoglienza, condizione emergenziale e dimostrazione estrema dell’incapacità totale di una classe politica degna di tale nome, di affrontare i problemi, a breve potrebbe esplodere, o implodere forse. Nell’egoismo dei Comuni ricchi che non accettano di ospitare persone, nella miseria di eletti ed elettori di giunte di centro destra e centro sinistra che non vogliono sporcarsi le mani e rischiare di giocarsi il pavido elettorato.
Ci sono 8000 comuni in Italia, i richiedenti asilo e protezione sono confinati nel 10% di questi, poco più di 150 mila persone in un paese di 60 milioni di abitanti con un reddito medio fra i più alti del pianeta. Un decimo di quelli presenti in Libano, grande meno dell’Abruzzo. E in due anni ne sono giunti poco più di 1 milione e mezzo in Europa, il continente ricco, in un territorio abitato da 510 milioni di persone.
Il sistema dell’accoglienza è destinato a crollare e a nulla serviranno Guardie di frontiera, patti con i dittatori, fili spinati per fermare chi arriva. Occorrerebbe cambiare il segno della politica estera europea ma questo danneggerebbe gli stessi padroni del vapore.
Il peggioramento delle condizioni di arrivo costerà altri morti, si tradurrà in deportazioni spettacolo e dichiarazioni roboanti enunciate a Bruxelles ma non sortiranno effetti reali. Chi oggi mostra i muscoli in maniera tronfia non propone reali soluzioni ma vende misere illusioni, repressive o dilatorie.
Accadrà che altre persone arriveranno e che coloro che ce la faranno, malgrado il sistema di business disumano in cui verranno imbrigliati, si renderanno presto conto di come reagire.
A noi spetterà il compito di decidere da che parte stare. No Border, solidali, attivisti sparsi, giornalisti con la schiena diritta, avvocati di strada, figure spurie e non rappresentate stanno emergendo. Se riusciranno ad unirsi, saranno loro, insieme agli uomini e alle donne migranti, a far terminare questa guerra e ad iniziarne una più ambiziosa, quella contro chi sfrutta.