Una intervista impossibile a Laura Bassi Veratti – senza donne non c’è scienza
Ada Donno ha pensato bene di mandarci questa foto per ricordare, in questi giorni che preparano l’8 marzo, che senza donne non c’è scienza. Dunque, non una di meno. Così, per ricordare l’importanza delle scienziate abbiamo recuperato dal sito Donne nella Scienza questa intervista impossbile a Laura Bassi Veratti. Scienzata e docente che nacque a Bologna agli inizi del 1700. Morì nella sua città nel 1778.
Buongiorno, Signora Professora! Che effetto fa essere la prima donna in Italia a ricoprire una cattedra universitaria in un periodo storico in cui ancora si discuteva animatamente sul fatto che le donne avessero o meno la capacità per apprendere?
Buongiorno, ma chiamami pure Laura e definiscimi pure professoressa, come oggi si usa fare, perché ormai il termine ha assunto un significato “serio” e non indica più uno sfottò come avveniva ai miei tempi – o anche prima – quando non potendo negare che una donna fosse colta si cercava di umiliarla e denigrarla usando termini con il suffisso “essa” che suonavano spregiativi nella lingua italiana. Allora, definire una donna dottoressa, medichessa, professoressa voleva dire ridurla ad una brutta e ridicola copia di un uomo dottore, medico, professore.
E come spiega, pardon, spieghi che oggi dire professoressa e dottoressa non sia più un modo di denigrare le donne e la loro professione?
Bè, forse col fatto che oggi le donne dottore, come sarebbe più corretto dire (la dottora, le dottore), o dottoresse, sono tante, anzi tantissime, per cui la loro competenza non si discute più. Quando si è in tante si vince anche sul pregiudizio! Sarebbe bello se tutte le donne oggi si definissero al femminile smettendo di ambire a titoli maschili per darsi importanza. In questo modo indeboliscono il ruolo femminile nelle scienze come nelle professioni e io so bene quanto sia stato duro poter arrivare ad esercitare quelle professioni rimanendo donna.
In effetti non era affatto facile per una ragazza ricevere un’educazione scientifica anche nel ‘700…
Sì, è vero, ma devo ringraziare mio padre e mia madre che mi hanno educata allo studio e non si sono lamentati o ritratti di fronte ad una figlia che desiderava diventare una scienziata di professione. Ho potuto studiare filosofia, la base di tutte le scienze senza la quale non esisterebbe la riflessione e l’elaborazione di un pensiero, la matematica che insegna ad essere rigorose e a capire relazioni tra saperi a prima vista impensabili… Pensi alle scoperte di Ipazia studiosa di filosofia e matematica, o più recentemente a Leibniz e ad Anne Conway che lo ispirò, o a Spinoza e prima di lui a Galileo. O ancora prima ad Ildegarda di Bingen che approfondì gli studi sul cosmo.
Ma per essere medico, o medica nel suo caso, non bastano filosofia e matematica.
No, infatti ho studiato anche anatomia, storia naturale e le lingue per comprendere i testi in lingua straniera…
A vent’anni eri così esperta su Newton e Cartesio che i migliori studiosi chiedevano di confrontarsi con te. Non ti pesava ad una così giovane età?
Sì, è vero, volevano confrontarsi con me! Era divertente! Addirittura è stato organizzato un dibattito pubblico tra me e cinque “professori” e il pubblico era entusiasta per le mie risposte tanto che un anno dopo mi fu permesso di laurearmi in filosofia e medicina all’Università di Bologna, mia città natale, seconda donna dopo Elena Cornaro Piscopia che nel 1678 si era laureata in filosofia, ma non aveva potuto laurearsi in teologia, un sapere ancora riservato agli uomini, all’Università di Padova. Poi ho avuto addirittura una cattedra, ma, ahimè!, potevo “insegnare” solo ai più dotti, alti dignitari italiani e stranieri che spesso arrivavano a Bologna proprio per ascoltarmi… E comunque, oltre a studiare, mi divertivo come ogni altra giovane della mia età e della mia condizione sociale.
Ma la vita privata di una donna in carriera nel ‘700 com’era? Oggi le donne hanno molti problemi…
Io sono stata fortunata perché innanzitutto avevo una rendita mia, una sorta di borsa di studio dell’università per continuare i miei studi ed i miei esperimenti. L’indipendenza economica, eccezionale ai miei tempi e difficile ancora oggi per le donne, credo sia il fattore fondamentale per una vera libertà sia nel lavoro che nei rapporti familiari. Io ho avuto anche la fortuna di sposare un uomo, il fisico Giovanni Giuseppe Veratti, che condivideva il mio amore per il sapere e non mi ha mai impedito di studiare o di insegnare. Questo è fondamentale. Insieme abbiamo avuto 8 figli, ma io grazie anche alle balie e ai servizi di cui ho potuto usufruire sono riuscita ad allevarli senza rinunciare a studiare, sperimentare, insegnare. È stata, come dite voi oggi un po’ perplessi, la condivisione dei lavori di cura in famiglia che mi ha consentito di farlo. È una faccenda seria che ancora in Italia non è affrontata come si dovrebbe.
A 27 anni quindi, pur essendoti sposata, hai continuato con i tuoi esperimenti e ti sei dedicata alla fisica, alla meccanica, all’idraulica.
Sì, certo! Ho inventato apparecchiature per fare esperimenti sull’elettricità e sulle teorie di Newton che però non erano pienamente condivisi dall’ambiente universitario. Così per non rallentare i miei esperimenti ho fondato una mia Scuola di Fisica Sperimentale con sede a casa mia. La Scuola era frequentata da molti studenti e docenti italiani e stranieri. Anche Alessandro Volta si è interessato ai miei studi e ci siamo scambiati pareri in molte lettere. I miei studi e le mie lezioni, tra le quali la prima Sulle proprietà dell’acqua, sono stati pubblicati negli annali accademici e nei Commentari dell’Istituto di Scienze di Bologna.
Poi a 65 anni sei stata premiata ancora una volta e ti è stata data la cattedra di fisica sperimentale presso l’Istituto di fisica di Bologna, ma nelle tue biografie appari spesso come una casalinga e una madre un po’ bizzarra perché amante dello studio.
Sì, infatti anche le mie biografie scritte da donne soprattutto nell’800 mi presentano come una donna dedita alla famiglia e schiva verso gli impegni mondani esterni alla casa. Credo fosse importante dare alle donne italiane l’idea che le donne possono studiare, ma sempre tenendo presente il loro primo dovere, cioè quello di servire la famiglia, il marito, la casa. E poi, forse, si voleva far intendere agli uomini che le donne colte non necessariamente debbano far paura. E che quindi potevano concedere alle loro figlie e mogli di seguire, seppure con moderazione, i loro interessi scientifici.