Una profonda intimità con la violenza. Intervista a Berna Reale
Articolo di Manuela Gandini su AlfaBeta 2
—- Mentre il traffico milanese attorno ai giardini di Porta Venezia scorre nell’afa di una mattina di luglio, un soldato, con elmetto e una strana mimetica, cammina lentamente tra le auto trainando un carro pieno di sagome umane. I corpi, una decina, sono avvolti in lenzuola stinte, quelle che sono servite a coprire i cadaveri di persone assassinate in Brasile. I passanti e gli automobilisti si fermano, rallentano sgomenti. Cos’è? Chi è quel soldato che porta con sé persone morte? Sono forse le stesse che vediamo ogni giorno sulla strada dopo un delitto, una strage terroristica, un attacco bellico? O sono piuttosto gli spiaggiati di un mare affamato che si prende la vita di chi ne cerca una migliore? Il soldato, a dispetto del caldo e della fatica, compie il suo lungo, silenzioso, lento giro connettendosi alla città e alla normalità. Il sistema di relazioni tra i passanti casuali e l’atto performativo, metafora di morti di massa invisibili, si configura come un’opera estesa e involontariamente partecipata. Ciascuno, che lo voglia o meno, entra nel cortocircuito indistinto arte/quotidiano innescato dall’artista brasiliana Berna Reale. Il soldato è non è maschio, è una donna minuta e forte. A chi pensa sia una fiction, che sia “soltanto una cosa d’arte” è stato risposto da chi seguiva il percorso “no è la realtà. Non avete forse una certa familiarità con queste immagini?”
Berna Reale ha realizzato la performance, Camuflagem, il 4 luglio 2018, nell’ambito della mostra “Brasile. Il coltello nella carne” curata da Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo al PAC di Milano. L’esposizione, che prende il titolo da una pièce teatrale di Plinio Marcos attivo durante la dittatura, è uno spaccato sul continente brasiliano. Dai quadri metallici con i fori dei proiettili delle diverse polizie del mondo di Clara Ianni, al video in Super 8 di Leticia Parente, che nel 1975 cuce sulla pianta del proprio piede la frase made in Brasil, il coltello affonda nella carne sociale di una terra sensuale e violenta dove la vita non vale niente.
Incontro Berna dopo la performance.
Come nascono le tue azioni?
“Io sono artista ma anche un perito criminale per la polizia brasiliana. Lavoro con la scena del crimine. Sono la prima ad arrivare dove è stato compiuto un omicidio, in una casa o in una strada, e devo capire cosa è successo, devo fare la perizia”.
Attraverso la scena del crimine?
“Sì lavoro con la scena del crimine. Ricostruisco i dettagli. Elaboro la storia del delitto cercando di capire se l’assassino è alto, basso, grasso o magro. E, quando l’omicidio è avvenuto sulla strada, le persone che aspettano la perizia criminale coprono il corpo del congiunto con un lenzuolo perché vogliono evitare che i passanti fotografino la vittima con il sangue e tutto il resto. Visto che la polizia impiega anche due ore ad arrivare, le famiglie o gli amici depongono un lenzuolo. Per quanto riguarda il mio lavoro ho mandato un progetto alle istituzioni di polizia chiedendo che mi venissero date le lenzuola per un’opera, precisando che questo elemento non appartiene alla scena del crimine perché viene adoperato dopo il delitto. Sei mesi più tardi mi è stato accordato il permesso di averle.
Il progetto è del 2010 ma l’ho realizzato ora. E’ un lavoro fatto con sagome umane che parla del quotidiano e della violenza non solo brasiliana ma globale. Parla dell’umanità.
Un’umanità predatrice e malata.
Per me la cosa più difficile è constatare come la violenza sia una cosa intima. Questo è il pericolo. Perché quando tu vedi tutto il giorno, come in Brasile, in Messico, in Siria, queste immagini di violenza, la violenza non ti sciocca più e ti lascia indifferente. Abbiamo sviluppato un’intimità con la violenza. Davanti a un morto ammazzato la gente fa fotografie e immediatamente le posta su Instagram. Oggi con un crimine, domani con un altro, poi li dimentica. Questo è un atteggiamento comune. Ripeto è l’intimità il pericolo.
Un dramma collettivo?
Sì è un dramma collettivo. Il dramma di chi commette l’omicidio, di chi è testimone e di chi è compartecipe voyeuristico che gusta il sapore della violenza. Abbiamo un problema con la nostra civilizzazione che è il problema del sapore della violenza.
Quindi la violenza estrema è un evento tollerato addirittura gustato?
Ho fatto un’installazione ambientale in una discoteca a San Paolo del Brasile nel 2015 intitolata O Tema da Festa. Al posto delle luci stroboscopiche ho sistemato, sul soffitto, le luci blu e rosse a intermittenza delle auto della polizia. Poi ho sovrapposto alla musica da discoteca il suono delle sirene e le voci delle persone sconvolte che telefonavano in diretta al centralino del commissariato chiedendo l’intervento delle pattuglie e piangendo. Le persone che entravano nel locale, scambiavano tutto ciò per un normale brano musicale e si mettevano a ballare. Bambini e adulti ballavano la musica della violenza, non capendo che si trattava di qualcosa di atroce che stava succedendo realmente.
Quindi pensavano fosse parte dello spettacolo?
Si, ci impiegavano almeno una decina di minuti a capire che si trattava di qualcosa di strano, di inusitato. Oggi in Brasile ci sono 28 omicidi di ragazzi al giorno che vengono fotografati e lanciati sui social così tutti cliccano cliccano cliccano moltiplicando l’immagine all’infinito. La violenza è virale. E’ triste, ma occorre pensare al sapore che senti vedendo la crudeltà.
Durante la performance sembravi un essere sovrumano. Sembrava passasse la morte. Il tuo incedere ricordava il tragitto dei morti per peste, guerra, stragi. E’ stato interessante vederti transitare vicino alle camionette dell’esercito, con i soldati che ti guardavano straniti.
Ho fatto un camouflage, mi piace questa comparazione. La mia divisa verde mimetica riproduce in realtà le mosche che si nutrono dei cadaveri che io ho fotografato, allora la domanda che pongo è: chi mangia questo? Chi si alimenta di questo?
Qual è il tuo rapporto con la morte?
Le lenzuola sono state a casa mia molti anni in attesa della realizzazione del lavoro. Io nasco come artista. Un giorno ho deciso di fare uno stage in polizia di otto mesi per un museo d’arte. Questo lavoro mi è piaciuto e ho partecipato a un concorso pubblico del governo per entrare nella polizia scientifica. E’ l’arte che mi ha portata a diventare perito, non il contrario. Molti mi chiedono se lavorando a contatto con la morte sia diventata più fredda e distaccata. No, rispondo che sono più sensibile. Lavorando solo con l’arte non si ha una vera percezione della realtà. Quando sei nella polizia entri in una casa povera, vedi una donna che ha subito la violenza del marito… Un pomeriggio sono stata chiamata per una perizia in una casa molto povera e sentivo un rumore strano e continuo mentre fotografavo la scena del crimine. Non riuscivo a concentrarmi, così sono andata a vedere da dove provenisse. Sono uscita dalla piccola stamberga per entrare in una casa di cartone con la copertura di plastica. C’era il sole cocente dell’una del pomeriggio. Sono entrata e ho visto due bambine di 4 e 2 anni. Avevano in mano una pentola piccola e, con un cucchiaio, raspavano il fondo per mangiare. Non posso dimenticare questa immagine della fame. Questo non lo vedi al museo, non lo vedi se sei solo un artista, lo vedi quando lavori in polizia. Sono diventata più sensibile non più fredda. Poi torni nella tua bella casa e ai musei. Io non faccio performance al museo, solo fuori, non ne ho mai fatte al museo. Penso che siano più importanti le persone che stanno fuori, quelle che frequentano i luoghi d’arte hanno già un’istruzione. Per me è la strada che conta. Questa è la mia prima performance fuori dal Brasile.
In che tipo di violenza ti imbatti prevalentemente: di genere, criminale, politica?
Di ogni tipo, le persone che muoiono ammazzate sono prevalentemente dai 18 ai 29 anni, questa è la fascia d’età di morti in Brasile. Sto preparando un progetto su questa fascia d’età. Sono persone povere, disagiate, nere. Penso sia così in tutto il mondo, sono sempre i poveri a crepare per primi.
Nel video esposto al PAC tu sei vestita con un lungo abito nero e carichi delle ossa su un carro che porti lungo le strade di un villaggio brasiliano, la performance del 2013 s’intitola Ordinario, di cosa si tratta?
Sono ossa anonime di persone morte che non hanno identità. Io ho chiesto il permesso di poterle utilizzarle per la performance. Ho dovuto fare una catalogazione, c’è un colore che viene attribuito a ciascun cadavere perché io le mischio tutte e poi le ricompongo.
Ti rifaccio la domanda: qual è il tuo rapporto fisico con la morte? Tu la vedi, la tocchi, tocchi le ossa, le scomponi, le esponi e le ricomponi. E’ difficile concepire un contatto così serrato…
Per me la morte è meno dura della violenza che la precede. Quando faccio una scena del crimine di un suicidio mi è più difficile di una morte d’altro tipo. Nel suicidio c’è sempre un biglietto, una lettera scritta per qualcuno. Io, come perito criminale, devo leggerla e, mentre leggo, torno a prima del suicidio. Incontro questa persona nella sua vita. E’ il momento più difficile rispetto a quando vedo un cadavere. Mentre scrive, la persona sta soffrendo e la sofferenza è più dura della morte. Ho fatto una performance in carcere nel 2013 – intitolata Americano – e, quando sono rientrata a casa ero tristissima. Loro stanno in carcere, io vado a casa. Questa sofferenza del carcere è dura perché è una sofferenza viva. Nella performance con le ossa non c’è sofferenza, mentre in carcere sì.
Dove trovi la forza fisica e la capacità di resistenza?
Sono molo concentrata, la mente fa tutto. A volte pensi che il tuo corpo non sopporti lo sforzo, ma quando hai la concentrazione la mente fa girare il corpo, è tutto, ha tutto. Se hai una mente tranquilla e concentrata è possibile affrontare qualunque cosa.
Hai parlato di scena del crimine. La scena è qualcosa di teatrale e cinematografico. Una scena è la disposizione degli oggetti nello spazio con attori che hanno dei ruoli specifici. Tu ti trovi in una scena reale che ha forse anche qualcosa di surreale. Quando sei in quella realtà così cruda, c’è una soglia che ti porta in una sorta di teatralità?
Sì il suicidio. Il suicidio mi porta alla teatralità. Tutte le scene di suicidio sono teatrali, hanno una posizione teatrale e una dinamica precisa. I protagonisti pianificano tutto prima e costruiscono la scena per la morte.
Tra le performance di Berna Reale – che pur essendo perito criminale è stata inquisita per avere denunciato la violenza della stessa polizia – c’è una cavalcata su un cavallo dipinto di rosso in giro per la città. Lei indossa una lunga e feroce museruola di ferro e ha un piglio spaventoso. Il cavallo è reale e irreale a un tempo, è vivo e rosso come il sangue, è la metafora della violenza istituzionale. “In questa performance, intitolata Palomo del 2012, parlo della dittatura perché la dittatura è silenziosa e il potere della polizia è durissimo”.
In Cantando na chuva del 2014, Berna è in abito maschile: giacca, cravatta e maschera antigas. Il suo abbigliamento è tutto dorato. Cammina a passo di danza, su un lungo tappeto rosso che attraversa un’immensa discarica a cielo aperto, mentre canta allegra “Singing in the rain”.
In un carcere brasiliano di massima sicurezza, che sembra una prigione medievale, Berna è entrata con una torcia olimpica correndo lungo i bracci mentre i detenuti con le mani fuori dalle sbarre della cella urlavano ed esultano. Nel suo lavoro sono saltati i confini tra realtà e arte, corpo fisico e corpo metaforico.
Per avere denunciato la violenza e la corruzione istituzionale – con tanto di prove e testimonianza – è stata messa agli arresti domiciliari, spostata d’ufficio, interrogata per sedici ore di seguito e minacciata per mesi. Il suo lavoro artistico, a costo della vita, è a servizio dell’umanità. Il corporativismo, il silenzio e l’indifferenza, rendono tutta l’umanità complice di una violenza così intima, saporita e … condivisa.
“Brasile. Il coltello nella carne”, sino al 9 settembre, PAC, Milano.