Una stessa matrice: pulizia sessuale-pulizia etnica
La raccolta in un gruppo chiuso, omogeneo, è strettamente imparentata con la separazione da tutto ciò che dal di fuori sembra ostacolarla. Niente come la figura di un nemico serve a stringere aggregazioni forti e compatte.
“L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone un’altra” (Freud).
Sotto questo profilo, che vede insieme apparentemente indistricabili amore e odio, conservazione e distruzione, si può leggere anche la nascita della comunità storica degli uomini, il bisogno del sesso dominatore di darsi una genealogia in proprio, una discendenza di padre in figlio, cancellando quell’origine “eterogenea” che lo lega al corpo della donna.
Prima, o insieme alle “pulizie etniche”, l’umanità ha conosciuto una “pulizia sessuale”, l’espulsione del primo “diverso” che ogni vivente incontra nascendo e con cui è stato, sia pure per un breve tragitto, in una stato di assorbimento o di indistinzione. Ma nella spinta ad ingrandire la sua famiglia sociale, era inevitabile che l’uomo conoscesse altri movimenti analoghi, di accomunamento e chiusura, inclusione e settarizzazione. I legami che lo hanno visto nel privato come marito, padre, figlio, amante, si trasferiscono, a volte con accresciuta intensità, nelle sue relazioni pubbliche, in particolare là dove la vita del gruppo appare più minacciata.
“L’intensità dell’amore di guerra – scrive James Hillman – nasce dal crollo di tutti gli altri… la disperazione di una vita vissuta insieme comprime tutto l’amore umano in questi pochi con cui faccio la ronda, oltre a mangiarci, pisciarci, dormirci insieme”.
Là dove si costituisce una comunità/persona, quasi fosse un’unità organica, in guerra ma anche nei nazionalismi, nelle costruzioni identitarie, negli arroccamenti etnici, nell’assolutizzazione delle differenze, si può ipotizzare che si riattualizzi, come replica cieca o come ripresa aperta a nuove soluzioni, l’unione originaria con la madre, un modello d’amore immaginario, esclusivo, che vede l’apertura e la diversità come un pericolo.
Nel libro curato da Maria Bacchi e Melita Richter, Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo (Rubbettino 2003), il legame tra differenziazione dei sessi e pulizia etnica, costruzioni di genere e nazionalismi, è al centro di un interrogativo ricorrente e della elaborazione originale che ne hanno fatto le associazioni femministe, in modo particolare le Donne in nero di Belgrado, strette tra l’attivismo e la solidarietà richiesti dalle ferite della guerra, e il bisogno di capire perché, a parte una stretta minoranza, le donne abbiano dato il loro appoggio a un’ideologia così dichiaratamente patriarcale e guerriera.
Il nazionalismo, scrive Tanja Rener, fa leva sulla comunità e sul sentimento, sulle categorie premoderne della terra, del sangue, della famiglia. Le donne, relegate da sempre in queste zone di frontiera della storia, ma pronte a riemergere in ogni crisi o mutamento della civiltà, vengono sollecitate a riprendersi antiche prerogative, quelle che le hanno viste come custodi della casa, della prole, ma anche dei valori più alti della comunità: madri di eroi e baluardo delle virtù della nazione.
Donne in nero di Bologna alla Marcia della pace Perugia-Assisi
Negate sempre e comunque come individui, tuttavia, osserva Rener, mentre lo stato socialista le aveva considerate solo come “soggetti sociali” svantaggiati, da proteggere ed emancipare, i nuovi stati nazionali le riportano a quella “differenza specifica” che è stata contraddittoriamente il loro asservimento e la loro esaltazione immaginaria.
“Le metafore nazionaliste della famiglia parlano di uomini come figli, padri e amanti della casa, patria, nazione… regressione, ritorno al seno materno del figlio che nella ‘fratellanza fra le nazioni’ aveva perduto la vera madre”.
Se la nazione è un’idea tutta maschile, e la sua nascita è coincisa con il dominio di una comunità “omogenea”, in quanto fondata su una genealogia patriarcale, è innegabile, tuttavia, che il richiamo alla patria come “coesione organica”, rimanda al corpo materno e a quella irripetibile “fusione” di cui resta, amato e temuto, protagonista.
La coscienza che ha sottratto a una rovinosa millenaria naturalizzazione il rapporto tra i sessi, oggi può tentare di riportare alla storia – e cioè alla cultura e alla politica – altri enigmatici indicibili annodamenti, primo fra tutti quello che imbrigliando vita e morte, amore e violenza, ha impedito finora una messa in discussione radicale dell’uno e dell’altra, e quindi la presa di distanza dall’immaginario che li sostiene. Anche se ancora lontana, comincia a profilarsi la fine di una parentela (dialettica?) rovinosa.
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Lea Melandri Saggista, scrittrice e giornalista. In questo periodo ha tenuto dei seminari di scrittura alla Casa Internazionale delle Donne a Roma, ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio”. Ha fondato e diretto Lapis oltre a collaborare con numerose testate. E’ un punto di riferimento del movimento delle donne. Altri suoi articoli su Comune.info sono leggibili cliccando qui. Ha aderito alla campagna 2016 “Facciamo Comune insieme“. È tra le autrici del quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole