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Si stenta a credere che in undici anni siano stati consumati 346 attentati terroristici (approssimativamente, uno ogni 10 giorni), inizialmente a scopo dimostrativo, limitati alla distruzione di infrastrutture (tralicci, ferrovie, caserme), ma in una seconda fase – con l’entrata in campo di elementi pangermanisti e neonazisti – con la deliberata ricerca di uccidere (fra le vittime, anche un carabiniere di lingua tedesca). Grandissima l’area territoriale coinvolta, non limitata alla provincia di Bolzano, ma estesa anche a Verona, Milano, Como, ecc. Forse solo l’emergere immediatamente successivo del terrorismo brigatista, ben altrimenti presente nella nostra memoria collettiva, spiega la subitanea rimozione di quello sudtirolese. O forse anche la complessità intrinseca della questione, nella quale erano coinvolte le pesanti responsabilità storiche dell’Italia fascista.

Nell’immediato dopoguerra, vasto consenso raccoglieva, anche fra gli inglesi e gli americani, la richiesta di riconoscere ai sudtirolesi il diritto all’autodeterminazione, che avrebbe portato sicuramente alla separazione del Sud Tirolo dall’Italia. Basti ricordare che più del 75% della popolazione di lingua tedesca nel 1939 aveva optato per il Reich, anche se quanti effettivamente partirono – a guerra iniziata – furono una minoranza degli optanti. Al momento delle trattative di pace, prevalse l’esigenza di non sacrificare eccessivamente l’Italia, un paese alleato, a cui già l’Unione sovietica aveva imposto pesanti rinunce territoriali sul confine orientale, a favore della Jugoslavia (furono cedute Istria e Dalmazia, zone miste di confine, dove la presenza italiana aveva radici storiche molto più profonde che nella provincia di Bolzano).

La sistemazione della “questione” dell’Alto Adige, con il “pacchetto” di accordi per l’autonomia, richiese una lunghissima trattativa a tre livelli: nella Commissione dei 19 fra le varie componenti linguistiche e lo Stato italiano, a livello internazionale fra lo Stato italiano e quello austriaco (in sede bilaterale e in sede ONU), infine fra la rappresentanza politica sudtirolese e lo stato austriaco, il quale ultimo non stimolò affatto una mediazione, ma per lungo tempo offrì protezione logistica, risorse ed appoggio ai terroristi. Questi non avrebbero potuto mantenere un’attività così estesa e prolungata, senza gli appoggi di cui godevano fra Austria, Svizzera e Germania.

Momenti di forte rottura, sul piano politico, furono il veto dell’Italia all’ingresso dell’Austria nella Comunità europea, e il rifiuto del visto ad un ministro austriaco che intendeva intervenire al congresso di fondazione dei socialdemocratici tirolesi. Questo in un periodo in cui era “normale” per i ministri austriaci ricevere i terroristi (lo testimonia il testamento del terrorista Amplatz), considerati combattenti dell’irredentismo, e mandarli assolti nei processi penali davanti ai tribunali di Graz e Linz.

Se l’esito finale è stato una vittoria della “buona politica” e della visione strategica di Aldo Moro e di Silvius Magnago, certo non si può dire altrettanto della concreta conduzione sul terreno “militare”. Il libro cita alcuni casi di terroristi morti mentre erano detenuti, che hanno dato spazio a sospetti di torture, e la morte del terrorista Amplatz per mano di un altro terrorista, legato ai servizi segreti italiani.

Infine, ho invano cercato nel libro di Marcantoni e Postal l’episodio del rastrellamento di Montassilone/Tesselberg del 1964, citato nel libro di Francesca Melandri “Eva dorme”, che solo per poco non finì in una strage, grazie alla “disobbedienza” di un graduato italiano. Un ultimo rilievo: a mio parere, nel libro sarebbe stato opportuno citare i luoghi con entrambe le denominazioni, quella italiana e quella tedesca. Pur con questi rilievi, esso rimane un utile e sereno promemoria di un periodo storico drammatico, troppo presto dimenticato.