uno, due… cento, duecento… mille, due mila morti … i numeri non raccontano tutto. La realtà è spesso più orribile.
Non possiamo stancarci di ripeterlo: i numeri non raccontano tutto. La realtà è spesso più orribile. Ben al di là dello stillicidio delle tragedie quotidiane, fa un effetto atroce sapere che, malgrado il netto calo delle partenze e degli arrivi, nel solo primo semestre del 2018 abbiamo avuto notizia di quasi 1500 persone scomparse nella traversata del Mediterraneo. Eppure, le politiche della morte decise dall’Unione Europea in nome del privilegio nazionale o continentale (sovra-nazionale) hanno un impatto letale di ben più ampia e diversificata portata. Lo sterminio deciso da Salvini, Macron & soci, non avviene solo per affogamento ma i migranti vengono uccisi ogni giorno anche dalle guardie di frontiera, travolti, spesso intenzionalmente, da treni o camion, bruciati vivi nel corso degli attacchi di gruppi di estrema destra, a causa del diniego di prestazioni mediche o delle deportazioni. Molti, moltissimi altri si tolgono la vita, uno degli esiti strutturali della tanatopolitica europea. Ce lo ricorda, in questo prezioso articolo, Annamaria Rivera, indignata per il dilagare del disprezzo verso la partecipazione alla sofferenza altrui e le semplicistiche analisi del voto di protesta alla Lega, che finiscono per produrre un’affermazione assolutoria del rimosso, laddove il rimosso ha sempre il nitido volto del razzismo politico e istituzionale, mediatico o “popolare”
Articolo di Annamaria Rivera
— Sono almeno 450 le vittime delle misure migranticide del governo in carica e di Salvini in specie. Alludo, ovviamente, alla guerra aperta e senza remore condotta contro le Ong che praticano ricerca e soccorso in mare e all’interdizione dei porti italiani a imbarcazioni che osino salvare vite migranti: non solo alle navi delle Ong, ma anche a quelle dell’Operazione Sophia, a un rimorchiatore battente bandiera italiana, finanche a un’imbarcazione della nostra Guardia costiera. Arrogandosi, il ministro dell’Interno, ruoli che non gli competono, fino a invocare le manette per i sopravvissuti ribellatisi alla prospettiva d’essere deportati nell’inferno libico. In realtà, tutto ciò s’inscrive nel contesto di quella che, sulla scia di Michel Foucault, potrebbe definirsi tanatopolitica, configurata dalle scelte e dall’operato di buona parte d’istituzioni e Stati dell’Unione europea.
Basta dire che, nel momento in cui scrivo, dall’inizio di quest’anno più 1.422 sono gli scomparsi nel corso della traversata del Mediterraneo, cui devono aggiungersi i 46 lungo percorsi terrestri europei. E’ una cifra agghiacciante se si considera il drastico calo delle partenze e degli arrivi: i primi di maggio erano diminuiti almeno del 75 per cento rispetto all’anno precedente, sicché, come documenta l’UNHCR, se nel 2017 si contava una vittima ogni otto profughi, nel 2018 siamo già a uno ogni sette, nonostante – ripeto – la netta riduzione dei “flussi” (come si usa dire con una brutta metafora naturalistica).
Sì, il Mediterraneo è ormai divenuto un vasto cimitero acquatico e il Canale di Sicilia ha “guadagnato” il sinistro primato di confine più letale al mondo. A tale primato hanno contribuito non solo la guerra contro le Ong, ma anche la fine della missione Mare Nostrum nonché gli attuali, ripetuti tentativi, praticati dal ministro dell’Interno con inusitato cinismo, d’intralciare perfino le operazioni di salvataggio condotte dalla Guardia costiera e dalla Marina militare, che in passato avevano salvato centinaia di migliaia di vite.
Non si creda, tuttavia, che si perisca solo ingoiati dalle acque del Mare nostrum. Per merito di UNITED – rete “contro il nazionalismo, il razzismo, il fascismo e in supporto di migranti e rifugiati”, la quale coinvolge ben 550 organizzazioni della società civile, provenienti da 48 diversi paesi europei – sappiamo che la tanatopolitica dell’Ue uccide, direttamente o indirettamente, anche in altre forme, le più svariate.
Attraverso un accurato monitoraggio condotto nel corso del tempo, tale rete ha compilato una lista, relativa al periodo che va dal 1993 al 2018, di ben 34.361 morti di rifugiati e migranti attribuibili alle “funeste politiche restrittive della Fortezza Europa”, alla “militarizzazione delle frontiere, alle leggi sull’asilo, alle politiche di detenzione e deportazione”. Questo catalogo è assai parziale, si avverte, poiché “molto probabilmente migliaia di vittime non sono state mai ritrovate”.
L’inventario funesto ci dice che si perde la vita uccisi dalla polizia o dalle guardie di frontiera di questo o quel Paese, europeo o non. Si muore travolti, spesso intenzionalmente, da treni o camion, come accade di frequente nei pressi di Calais. Si perisce, delle volte bruciati vivi, nel corso di attacchi a centri “di accoglienza” da parte di gruppi di estrema destra. Una volta raggiunto l’agognato suolo europeo, si può soccombere a causa del diniego di prestazioni mediche. In non pochi casi si è uccisi non appena toccato il suolo di Paesi quali l’Iraq e l’Afghanistan, dai quali si era fuggiti per esservi poi deportati. Si muore anche suicidi, e in gran numero, allorché si apprende o si teme fondatamente che la propria domanda di asilo sarà rifiutata oppure a causa delle intollerabili condizioni di vita del centro “di accoglienza”.
Bisognerebbe darsi la pena – come ha fatto chi scrive – di leggere un caso dopo l’altro di questa lista (meritoriamente pubblicata dal manifesto, il 22 giugno scorso, in forma di supplemento), per immaginare quale abisso di disperazione abbia spinto circa 450 persone, fra le quali non pochi minorenni, a togliersi la vita, dopo aver coraggiosamente affrontato viaggi costellati da ogni sorta di pericoli, sofferenze e orrori (basta pensare ai lager libici).
Dell’ampio catalogo riporto solo alcuni esempi, tra i più emblematici, tragici, non remoti. Il 22 aprile 2018, nel centro per richiedenti-asilo di Eckolstädt, in Germania, un’eritrea di diciannove anni strangola il suo bambino di sei mesi e poi s’impicca. Tra gennaio e febbraio del 2017, in Svezia, cinque adolescenti si suicidano in diversi centri per richiedenti-asilo. Il 25 aprile 2016 si uccide un diciassettenne maliano, illegittimamente rinchiuso in prigione a Loiret, in Francia. Il 16 gennaio 2012, una ventiquattrenne, preveniente dallo Sri Lanka dà fuoco alla stanza del centro per rifugiati di Førde, in Norvegia, uccidendo se stessa e il suo bambino di due anni: la sua domanda d’asilo era stata respinta. Infatti, tra i “diniegati”, come si dice in gergo burocratico, non pochi sono coloro che scelgono il modo più atroce di togliersi la vita facendosi torce umane: l’auto-immolazione, si sa, è per eccellenza atto estremo di protesta e/o rivolta (si veda: A. Rivera, Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Dedalo, Bari 2012).
Che il suicidio sia uno degli esiti tragici, dal carattere strutturale, della tanatopolitica europea è dimostrato anche da un caso assai recente. Il 4 luglio scorso 69 afghani sono deportati dalla Germania verso il loro paese di origine. Il ministro dell’Interno, Horst Seehofer, una sorta di Salvini in versione teutonica, osa compiacersi pubblicamente che ciò avvenga giusto il giorno del suo compleanno, quasi fosse un regalo. Uno dei deportati s’impiccherà non appena arrivato a Kabul. Aveva ventitre anni e, pur risiedendo in Germania sin dalla prima adolescenza, aveva visto respinta, in via definitiva, la sua domanda d’asilo.
Ho riportato questi casi per tentare di sottrarre all’indistinzione, alla riduzione a massa irrilevante, se non alla reificazione, le biografie di questi tragici eroi del nostro tempo. Sebbene insufficiente a scardinare il circolo vizioso del razzismo, ormai dilagante, l’esercizio dell’empatia, se praticato da un buon numero di cittadini/e, potrebbe contribuire almeno a incrinarlo, quel circolo vizioso che lega razzismo istituzionale, mediatico, “popolare”. Certo, viviamo in un tempo infelice, quando perfino certi dotti, di sicuro antirazzisti, perlopiù d’orientamento postcoloniale, disprezzano apertamente l’etica della compassione, che, pur se intesa nel senso più letterale quale partecipazione alla sofferenza altrui, a loro dire sarebbe nient’altro che un retaggio del paternalismo colonialista.
Per non dire di altri i quali, dalle colonne di un quotidiano assai di sinistra, collocandosi inconsapevolmente sulla scia del vecchio giudizio dalemiano a proposito della Lega quale “costola della sinistra”, denegano o minimizzano come semplice, legittimo voto di protesta quello guadagnato da Salvini e co. grazie a elettori un tempo di sinistra. I quali esprimerebbero come possono la loro protesta, essendo anch’essi vittime, quasi quanto i migranti. Vi è anche qualche dotto che, minimizzando il ruolo del tema immigrazione e dello stesso razzismo rispetto ai risultati elettorali, arriva a sostenere che quella minoranza d’italiani/e la quale teme di vivere in un Paese fascista e razzista sarebbe votata ad affermare solo il proprio, esclusivo “suprematismo morale”.
Eppure è tutt’altro che azzardato ipotizzare, come faccio da qualche tempo, che siamo nella fase marcescente del neoliberismo o, per dirla in altri termini, del capitalismo finanziarizzato. Intendendo quel qualificativo nel senso di ciò che, pur affetto da putredine, sopravvive annunciando un possibile esito di tipo totalitario. A tal proposito, non è anacronistico citare Hannah Arendt, la quale ne La banalità del male (1963) così scriveva: “Certamente il fascismo è stato già sconfitto una volta, ma siamo ben lungi dall’aver sradicato definitivamente questo male supremo del nostro tempo: le sue radici sono infatti profonde e si chiamano antisemitismo, razzismo, imperialismo”.
L’articolo che ci ha inviato Annamaria Rivera è uscito anche su Micromega