Violenza sulle donne: come è difficile essere solidali con la vittima
“Devo fermare tutto questo, prima che la mia storia diventi una nota a piè di pagina in un racconto su un’infestazione da pidocchi. Devo assumermi qualche responsabilità sulla mia vita. Devo scrivere la mia storia.”
Quello che avete appena letto è un passaggio dell’ultimo libro di Meena Kandasamy, Ogni volta che ti picchio, pubblicato in Italia dalle edizioni E/O. Kandasamy, autrice, attivista, poeta indiana seguitissima su twitter da oltre centomila followers ci regala un testo dalla scrittura fluida e torrenziale allo stesso tempo, dolorosa e sorprendente, densissima di citazioni eccentriche che spaziano da Marge Piercy a Clara Zetkin passando per Che Guevara fino a Sandra Cisneros e Zora Neale Hurston.
Ogni volta che ti picchio va oltre il racconto autobiografico di donna abusata in un matrimonio che, per le premesse politiche delle persone coinvolte, si direbbe alieno dalla violenza. Ma non è così, perché i maltrattamenti fisici e psicologici, specialmente in famiglia, sono una realtà trasversale: gli uomini violenti ci sono a destra e a sinistra, nelle classi abbienti e in quelle povere, tra i laureati così come tra gli analfabeti. “Come molti scrittori ho sempre pensato a me stessa come a una persona di estrema sinistra. Non sapevo dove si trovasse di preciso questa sinistra, ma sapevo che esisteva. Ero il tipo che a quindici anni si comprava una spilla di Che Guevara, e probabilmente con il Che ci sarei pure andata a letto, se non fossi stata minorenne e lui non fosse morto da un pezzo. Amavo Bob Marley con la stessa intensità. Mi ero innamorata delle vibranti erre dello spagnolo ascoltando il discorso di Fidel Castro La Storia mi assolverà. Come il cambiamento climatico, la violenza domestica è qualcosa di inevitabile e universale, che tende a diffondersi. – afferma l’autrice- O sapete cosa significa vivere in una casa poco sicura o conoscete qualcuno che lo sa, oppure siete parte del problema, scoraggiando confidenze con la vostra ignoranza. Se fate parte di quest’ultima categoria, questo libro può insegnarvi qualcosa – e far sì che non continuiate a provocare ferite chiedendo a una sopravvissuta in carne e ossa di testimoniare davanti al tribunale della vostra opinione disinformata.”
Parlo di Ogni volta che ti picchio invitandovi a leggerlo non solo perché è molto avvincente e intenso, ma anche perché proprio nello stesso periodo nel quale la casa editrice me lo ha inviato si è messa in contatto con me una donna, la chiameremo Gaia,per raccontarmi la sua storia di maltrattamenti sorprendentemente analoga a quella del libro, in una perfetta coincidenza significativa. Qui però c’è una persona in carne ed ossa che mi interpella, e il già fortissimo impatto del libro prende corpo, voce, sostanza. Anche in questa storia c’è un uomo colto e impegnato, e c’è una donna sapiente, autonoma, femminista. Eppure nulla di tutto ciò vaccina automaticamente dal rischio di precipitare in una relazione abusante.
Gaia da anni vive un estenuante percorso a ostacoli tra denunce, sentenze, ricorsi in tribunale, ma non mi ha contattato soltanto per fare emergere la sua, tra le migliaia analoghe, vicenda di violenza maschile nella quale una donna si può trovare.
Da attivista Gaia pone anche la questione delle ‘altre’, le donne che nel tempo hanno avuto rapporti con quest’uomo, sono state oggetto di violenza, e chiamate da lei a testimoniare si sono in vario modo sottratte.
“La mia storia si svolge in ambienti della buona borghesia sedicente intellettuale e di sinistra, dove tutte le persone coinvolte – denunciato, co-vittime, testimoni- lavorano, anche a livelli importanti, nella Cooperazione internazionale, nelle Ong, nella lotta alla violenza contro le donne, nel giornalismo e fotografia d’impegno. Ho denunciato il mio ex compagno per violenze psicologiche, fisiche, sessuali ed economiche, focalizzandomi soprattutto sulla violenza psicologica, matrice di ogni altra, e, in particolare, sul fenomeno del gaslighting, comportamento volto a destabilizzare la vittima con continue affermazioni paradossali – racconta Gaia -. Sono stata accompagnata nella denuncia dal Centro antiviolenza Erinna, che mi ha aiutata a comprendere meglio episodi che minimizzavo, rimuovendo le terribili sequenze finali di violenze. La mia denuncia, malgrado le opposizioni, è stata archiviata con la motivazione principale che si tratta effettivamente di denigrazione, ma ero maggiorenne e capace di intendere e volere, condividevo la ‘sessualità perversa’, così quella individuata come violenza sessuale viene definita dalla Giudice, e volevo sposarmi. In questo modo la Giudice ha rovesciato l’accusa di maltrattamenti in famiglia per attribuire a me la responsabilità, ottimo esempio di gaslighting giudiziario. Nel suo ossimoro penalistico la Giudice ricolloca la vicenda su un piano di forze simmetriche, dove la persona per quasi vent’anni denigrata e il per quasi vent’anni denigrante hanno identica forza. La Giudice sembra ignorare che i processi di violenza psicologica spesso aggrediscono gradualmente la capacità decisionale, affiorando lentamente, in maniera da impedire il discernimento che si userebbe se venissero presentati immediatamente, da principio. Sicché, quando divengono definitivi, la vittima vi è ormai completamente assoggettata ed ha perso qualsiasi capacità di reazione”.
Ora che la vicenda processuale da nazionale si sta spostando a livello di Corte Europea dei Diritti Umani e anche in altri Paesi, Gaia invita alla riflessione sull’aspetto forse più doloroso della vicenda, quello della difficile solidarietà del mondo delle donne.
“Testimoni fondamentali, per spiegare come i comportamenti del denunciato sono reiterati, moltiplicati identici e impersonali, sarebbero le co-vittime, ossia le svariate fidanzate, amanti, amiche che, in diaboliche triangolazioni, popola(va)no la vita dell’ex. Non domando loro di denunciare, ma di testimoniare: e mi aspetto che da donne presenti nel Femminismo e nella lotta alla violenza lo facciano. Da loro è invece giunto il peggiore rifiuto, il rifiuto che non si sofferma nemmeno ad ascoltare, ad esaminare, a dubitare, e accusa me di essere la ‘stalker’, la violenta. Ciò che spesso mi è stato rimproverato, anche nei centri antiviolenza, è che al mio pari sono vittime e devono fare il loro percorso: ribadisco però che non ho chiesto di denunciare, ma di testimoniare, come, per dovere civico, dovrebbe testimoniare ogni persona che assista a un fatto delittuoso, come hanno testimoniato tante nel #MeeToo. Il tacere è l’omertà che propaga la violenza. La testimonianza è atto politico di rifiuto della violenza, adesione a un moto che non garantisce risultati istantanei e facili, ma li costruisce nel tempo, collegialmente e con difficoltà. Il silenzio di queste donne pone un problema sgradito alla maggior parte delle femministe: il ruolo delle donne stesse, e più ancora delle donne femministe, nel mantenimento del patriarcato. Sottolinea anche la cesura, tipica della società odierna, fra carriera e vita privata: la professione non è attività nobilitante posta al servizio della collettività ma risonanza egoistica di immagine personale. Il distinguo stride quando si pensi che il mondo delle Ong e della Cooperazione dovrebbe esser caratterizzato da una solidissima consapevolezza e non da un generico, camaleontico buonismo”.
In un rimando al libro dell’inizio l’autrice di Ogni volta che ti picchio afferma che “la sorellanza tra sopravvissute può essere intrisa di solitudine. Fa bene sentire il racconto di una di noi, le cui parole sono state abbastanza forti da salvarla.” Forse è questa la funzione più importante della lotta, processuale ma non solo, di Gaia.