Virginia Woolf è andata oltre. Ha guardato James Joyce e Thomas Stearns Eliot e non solo, è passata e li ha oltrepassati
Dalle pagine di Alfapiù articolo di Raffaella D’Elia — Virginia Woolf ha prodotto uno sconfinamento cardinale, attraverso la sua produzione artistica. Si è situata laddove erano passati, fianco a fianco, fra alcuni altri, James Joyce e Thomas Stearns Eliot. Ma dal porto raggiunto e sempre rilanciato oltre i suoi stessi confini, lei li ha guardati, e oltrepassati (nel significato di passare oltre), questi scrittori e poeti che percorrono tutti, lei compresa, il percorso di rinnovamento del fare letterario novecentesco. Woolf ha fatto dello sconfinamento (fino a quello ultimo e fatale) l’indice della sua opera: che testimonia tutta – dai romanzi alle poesie, dalle lettere alle pagine di diario ai taccuini di viaggio – una pratica della scrittura coincidente con la vita, e viceversa.
The voyage out , La crociera è per una curiosa coincidenza il suo primo romanzo, pubblicato nel 1915. L’idea di un viaggio oltre confine, suggerita dal titolo, viene confermata dalla vicenda della protagonista femminile, Rachel, che lascia Londra per trascorrere un periodo in una località immaginaria del Sudamerica. L’iniziazione alla vita, all’innamoramento, alla formazione tuttavia fallisce. La morte per tifo della protagonista rende impossibile attingere a ciò che si pretenderebbe o vorrebbe.
A questa altezza Woolf in maniera rabdomantica già esplorava il mondo della lettura, della scrittura, capovolgendo in un certo senso l’abituale prassi di sistole e diastole nel mondo e verso il mondo: per lei andare oltre ha significato non solo gettare al di là della tradizione (“ fine old potentate”, la poesia inglese così traslitterata nelle sue considerazioni) i propri convincimenti e le proprie armi. L’iniziazione per lei è consistita anche e soprattutto nell’opera di sottrazione, di salvaguardia esclusiva di alcuni elementi. Nella battaglia dello scrittore, più in generale dell’artista nei confronti del mondo, il vero discrimine non è mai con o contro ciò che sta fuori, ma con ciò che ha residenza e ha trovato dimora all’interno, vale a dire il proprio mondo interiore. E quello di Woolf ha avuto in sorte di vivere al tempo di una generale “ristrutturazione” del fare letteratura, sapendo distinguere e tralasciare le cose non essenziali – così mirando sempre al proprio, di orizzonte. Negli anni che vanno dal 1905 al 1909 (Woolf nasce a Londra nel 1882 e muore a Rodmell nel 1941), quando è poco più che ventenne, già parla in questi termini: “Mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze”.
Diari di viaggio in Italia e in Europa presenta testi in larga parte inediti in Italia, dedicati alla Grecia, la Turchia, la Gran Bretagna e in generale l’Europa. Woolf non ha mai scritto letteratura di viaggio come la intendiamo noi, si è sempre distinta nella volontà di rappresentare l’oggetto in questione in modo insolito. I taccuini dell’ultimo decennio, degli anni 1931, 1935 e 1938, sono quelli di una scrittrice ormai affermata che sconfina in presenza, se posso dire: liquida Milano in poche righe, parla di Assisi senza menzionare S. Francesco, e tiene sempre a mente “un diverso tipo di bellezza”: “raggiungo una simmetria attraverso infinite discordanze, mostrando tutte le tracce del passaggio della mente per il mondo; e alla fine ottengo una sorta di insieme fatto di frammenti vibranti; questo mi pare il processo naturale, il volo della mente”.
Dalla casa monumentale del quartiere benestante di Kensington a Bloomsbury, la figlia di Leslie Stephen (importante intellettuale dell’epoca vittoriana, a seguito della cui morte Woolf si trasferisce nel quartiere che darà poi il nome a un celebrato gruppo di artisti e scrittori), curva e fa vibrare l’ago della sua bussola personale. Atipica è la sua postura, all’interno di una comunità così chiacchierata (vi appartenevano critici d’arte come Roger Fry, romanzieri come E. M. Forster, storici come Litton Strachey; in Momenti di essere Woolf traccia un ritratto di questi “Bloomsberries”). A differenza dei fratelli, il suo apprendistato si compie in casa e l’accesso all’immensa biblioteca paterna la pone in contatto anche con la cultura greca e classica. La sua non è però mai una cultura esibita. Quando studia gli epistolari di Elizabeth Barrett Browning e Christina Rossetti, attribuisce alla sorella di Dante Gabriel la capacità di trovare la propria voce, cosa che invece è mancata a Browning, rimasta quindi a suo giudizio confinata entro l’Ottocento.
Trovare la propria voce significa anche attraversare il mondo e sapersene difendere. Lo spiega bene attraverso l’espressione Lunedì o martedì, titolo anche dell’unico libro di racconti pubblicato in vita, oggi disponibile nell’edizione da poco uscita per Bompiani a cura di Mario Fortunato, che comprende i racconti dal 1906 al 1941 (riferendosi all’edizione inglese del 1985, The Complete Shorter Fiction a cura di Susan Dick, che contiene tutta la narrativa breve woolfiana e già nel 1988 aveva portato nella nostra lingua La Tartaruga col titolo Tutti i racconti; nell’edizione Bompiani non compare un testo del 1934, perché in versi; nel 2016 è uscito anche Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose , a cura di Liliana Rampello, di cui si dirà tra breve). L’espressione è presente, come ricorda Fortunato, anche nel saggio La narrativa moderna: “esaminate per un momento una mente qualsiasi in un giorno qualsiasi”, scrive, “riceverete una miriade di impressioni […] che piovono da ogni parte, come un diluvio incessante di atomi; e mentre cadono, mentre assumono la forma di vita del lunedì o martedì, l’accento si posa in modo sempre differente; il momento essenziale non si è verificato qui, ma lì”.
Dov’è che si verificano le cose importanti? Occorre tornare indietro, spostarsi in avanti. Affiancare Woolf nel suo doppio movimento: quando da scrittrice di primo Novecento esplora lo scardinamento della trama e dei meccanismi letterari tradizionali; e quando, soprattutto, reagisce a suo modo. Procedere in “modo ablativo” (come scrive Nadia Fusini nel saggio introduttivo al doppio Meridiano dedicato ai Romanzi nel 1998) significa sapere che l’uomo di inizio secolo è non solo privo di trame da restituire sulla pagina, ma in lutto e in congedo rispetto alla vita stessa, che non si fa più cogliere, fermare. È quindi a livello del romanzo che si gioca la partita novecentesca di riformulazione del genere, ma l’autrice compie un ulteriore passo in avanti. Non si limita a operare nel romanzo e all’interno del romanzo.
Come Rachel nella Crociera, Woolf approda lontanissimo, nel nucleo incandescente della prassi romanzesca, e produce un nuovo magnetismo. L’esito del suo muoversi lungo l’asse Londra-Kensington-Bloomsbury la conduce nel centro pulsante del suo essere scrittrice, poiché il suo Nord si costruisce a partire da una mancanza che diventa una possibilità di essere, moments of being (così Jeanne Schulkind intitolerà nel 1985 una raccolta postuma di brevi testi autobiografici che resta fuori dalle edizioni italiane dei “racconti”). Non solo: a partire da questo cuore pulsante, ogni parola in aggiunta a un’altra parola ha un potere assoluto, e la capacità di metamorfosi, di mutazione del romanzo contagia gli altri modi di scrivere. Cioè di vivere.
Oggetti solidi, Tutti i racconti e altre prose contiene quarantaquattro prose narrative, presentate in ordine cronologico e suddivise per gruppi di anni; la traduzione riprende quella della citata edizione della Tartaruga. La curatrice, Liliana Rampello (woolfiana di lungo corso, cui si devono fra l’altro la monografia Il canto del mondo reale e la cura della raccolta delle pagine saggistiche, Voltando pagina, uscite entrambe dal Saggiatore rispettivamente nel 2005 e nel 2011), intercetta di ogni raccolta per così dire “anagrafica” il gradiente specifico. I testi che vanno dal 1906 al 1909 “mettono in scena molte tematiche che le saranno sempre care, e che si svilupperanno nella più ampia tessitura dei romanzi o che ritroveremo imbullonate nell’intelaiatura dei suoi saggi, così come questi e quelli illumineranno a loro volta i movimenti di un racconto o dell’altro”. Questa capacità osmotica, e questo battere e levare di Woolf, la facilità in entrata e in uscita dal fare romanzesco, attraverso anche altre pratiche scrittorie, è stata la sua rivoluzione nella rivoluzione del Novecento.
Il libro di Sara Sullam, Tra i generi, esamina la matrice comune del genere romanzesco woolfiano: unico secondo l’autrice a poter “rifunzionalizzare” gli altri generi ibridandosi con essi. Attraverso l’indagine puntuale dei romanzi, Sullam amplia il discorso di Fusini sui generi e funzioni come “luoghi di negoziazione”. Che il genere letterario in Woolf sia “un campo immenso, sfrangiato e percorso da continue tensioni” è punto di partenza e approdo di ogni prospettiva. Dal “centro, magnete” si struttura per esempio, nel 1922, La stanza di Jacob: grazie al vero e proprio “intarsio” (sempre Sullam) di forze centrifughe, con la galleria di figure femminili come ossatura del romanzo; dalle due presunte trame tradizionali di Mrs Dalloway, 1925 (romanzo di formazione e marriage plot di Richard e Clarissa), si approda due anni dopo al grande discrimine di Al faro. La stagione degli anni Venti si chiude forse non a caso con lo statuto di genere volutamente incerto di Orlando (1928): in cui la fantasmagoria dei generi sessuali fa anche da metafora per una riflessione sui generi letterari. Le pagine dedicate poi da Sullam a Le onde (1931), con le due triadi maschili e femminili a confronto, rilanciano l’idea di una lingua che deve “tramare una rete di immagini a maglie larghe”, capace secondo le parole di Woolf di “includere tutto, tutto”.
Lasciatasi quindi alle spalle l’urgenza del tempo in cui vive di rompere (letterariamente) con il passato e la memoria ottocentesca, Woolf può confrontarsi e misurarsi, ora che lo svincolo dalla tradizione si è operato, con la sua propria, unica voce; e accedere ai suoi moments of being (“Che cosa rimane interessante? Come sempre, i momenti di essere”), senza lasciare intentata una definizione di quella materia opaca che ingloba l’essere vero e proprio: “tante volte nello scrivere i miei cosiddetti romanzi mi sono trovata di fronte al medesimo ostacolo: come descrivere quello che nel mio linguaggio privato chiamo ‘il non-essere’. In ogni giornata il non-essere è molto di più che l’essere […] Gran parte di ogni giornata non la si vive consciamente” (Immagini del passato, da Momenti di essere. Scritti autobiografici, La Tartaruga 1977 – edizione, tradotta da Adriana Bottini, più volte ristampata sino al 2003) .
Questa realtà nella realtà (“I had my vision”) è possibile incontrarla oggi anche negli scritti londinesi, che fanno rivivere alcuni luoghi della città attraverso le parole della scrittrice. Oxford Street, l’abbazia di Westminster e la cattedrale di St. Paul, Wembley, insieme a luoghi quali i tribunali civili o certe case di uomini illustri (Keats e Carlyle), si susseguono nelle parole dell’artista sempre attenta a riferirne la densità e l’intensità storica assieme però a un certo tipo di provvisorietà: “questa pietra che sembra carta e i mattoni friabili rispecchiano la leggerezza, la frenesia e l’irresponsabilità del nostro tempo […]. Il fascino della Londra di oggi risiede nel fatto di non essere costruita per rimanere ma per passare. Tutti i suoi vetri, la sua trasparenza, le sue impietose onde di cartongesso colorato offrono un piacere diverso come raggiungono un fine diverso da quello voluto e cercato dagli antichi costruttori e dai loro committenti, i nobili inglesi” ( La marea di Oxford Street, in Londra; l’antologia di pagine londinesi appena pubblicata da Bompiani, sebbene il blurb affermi “per la prima volta raccolti in un solo volume […] tutti gli scritti londinesi di Virginia Woolf”, era stata preceduta nel 1992 da quella curata da Ermanno Pea per Marcos y Marcos col titolo Volare su Londra).
Verrebbe quasi da dire che, di fronte a una tale voce, la stessa critica debba fare un passo indietro (in avanti): per abbracciare, nel rispetto del sapore massimo di ogni parola, lo sguardo che diventa visione, la frase che muta e si tramuta in mondo, per preservare e proteggere quella “libera vita significante delle parole” (così Liliana Rampello nell’introduzione a Oggetti solidi). Quando nel 1953 uscì per Hogart Press A Writer’s Diary (tradotto da minimum fax nel 2009 con il titolo Diario di una scrittrice) così scriveva Giorgio Melchiori (su “Lo Spettatore Italiano”, febbraio 1954): “Le sue annotazioni sono vive e sono effettivamente ‘letteratura’, si inseriscono cioè in un’antica tradizione letteraria, o meglio in una sua precisa fase; e dimostrano l’integrità di una vocazione, che invece negli scrittori recentissimi non è più neppur mestiere, ma sembra ridotta a semplice gioco”.
Virginia Woolf non ha solo dimostrato di opporsi ai codici tradizionali, e soprattutto non ne ha mai fatta una questione solo di codice, ma di visione del mondo. Ha incarnato un ideale di essere umano e di scrittrice che risponde unicamente alle sfide lanciate e rilanciate dal proprio mondo interiore. Nell’umana e artistica ricerca di un orientamento, l’orizzonte e il punto cardinale senza dubbio più importanti a cui rivolgersi.